Racconti

leggere, sognare, scrivere... pensare

Quando le parole degli altri sostituiscono la propria esperienza, è meglio non ascoltare e rinchiudersi nel cesso.
di Angela Cavelli

Fiabe e racconti

Cosa sarebbe la vita
senza storie...

Venerdì 18 Giugno, 2010
PRIMO CAPITOLO

Vaga si guardò in giro: le parve che Milano fosse diventata una città di vigili urbani, non perché ce ne fossero molti, ma per quell'aria che si respirava, malgrado il tepore settembrino, di contravvenzione.
Bisognava essere in ordine con la legge e lei, parcheggiando in uno spiazzo che stava tra due carreggiate, capiva bene che, pur non potendo fare altrimenti per via della sua incapa¬cità ad infilarsi in un qualsiasi buco libero, che del resto non trovava mai, doveva portarsi dietro la pena di poter andare incontro ad un verbale di contravvenzione.
"Ancora qui, dunque, fermiamoci un attimo su questo" le disse l'amico con una freschezza d'accento, come se recitasse le strofe di un poema omerico, ma era invece la vita di lei, Vaga, che lui stava dardeggiando, dopo averla fatta accomodare sul di¬vano, subito dopo che lei l'ebbe raggiunto nel suo studio.
La donna ammutol“ e colse quelle parole come un'offesa incomprensibile. Stava dunque per diventare un’ospite sgradita? Fu presa da una irresistibile voglia di piangere. Sapeva bene che da tempo ormai saliva quelle scale che la portavano da colui che lei chiamava il suo maestro, erano anni e anni, neppure voleva soffermarsi su quanti, ma non poteva farne a meno, non poteva. Dove avrebbe trovato un altro cos“? Dove? Sulla luna, forse, tra le cose perdute, tra le cose finite per sempre. Ricordò che una volta in quello studio aveva letto un libro intitolato "Il corvo" illustrato da Gustave Dorè e l'avevano colpita le parole del poema che si ripetevano ad ogni fine di strofa: "mai più". Ebbene, in quel momento quelle parole aleggiavano come una corona di fiori morti nella sua testa.
"Mai più, dunque" si disse e avrebbe magonato per una settimana e forse per un anno intero, ma non poteva, non poteva più e lasciò cos“ quella situation - commedy che avrebbe potuto essere inserita in un romanzo della serie patetica di Harmony. Poi si riprese un poco, si accomodò meglio sul divano e si disse che, forse, si era sbagliata, lui non voleva cacciarla....ecco ancora una volta se l'era presa per niente...ma quelle parole ....che altro significato potevano avere se non quello? L'udito non le faceva ancora cilecca.
Parlò poi, bisognava pur parlare, malgrado la tristezza immensa:
"Non so, non mi capacito, e neppure so perché mi dici questo. Avevamo un contratto...sono legata a te, non mi slego, non riesco a legarmi davvero ad altri maestri, non mi fido... e poi vorrei imparare ancora, tu rispondi in modo unico alle mie domande sospese, vorrei dir di più, mi dai risposte stupefacenti, non le trovo da nessun'altra parte. Ecco... ti dico che mi sento succube di te.." disse infine Vaga con voce sottile, perché si ritrovava sempre ad essere impotente davanti a lui, a dover quasi chiedere scusa d'esser l“, soprattutto ora, dopo quelle parole.
Continuò: "Sono timida con te, timidissima, mi capita soprattutto con gli amici, quelli che io stimo, a cui non vorrei mai fare uno sgarbo, di solito sto attenta a non farlo, ossequiare solo vorrei, essere sempre d'accordo, ecco, ma adesso mi son stancata, chi sono dunque io? Un'amebica forma? L'inferiore?", aggiun¬se poi con sottile perfidia, come buttando là qualcosa di pericoloso per farlo giungere a segno, ma con la certezza che l'amico avrebbe tirato fuori dal suo cappello la chiave di quella sua monotona rivendicazione.
"In quanto al succube, io ti direi - badiamo ai fatti, voglio i fatti - " disse l'uomo con sicu¬rezza.
Vaga passò in rassegna gli annali della sua analisi e certo non vi erano fatti. Eppure, testardamente, era cresciuto dentro di lei un pensiero duro, gnuccoso, astioso, di pretesa. Qualcosa di paranoico, dunque. Non c'eran fatti, lo sapeva. Non c'erano e voleva dirglielo, ma lui la rimandò a casa perché ci pensasse.
E ci pensò Vaga, ma a modo suo, e come avrebbe potuto altrimenti? Lei sapeva d'avere una seconda vita, un pensiero che andava avanti senza che lei lo controllasse, che continuava, nel sonno e nella veglia, dietro alle sue mille letture e che, anzi, lei nutriva con i li¬bri e gli incontri, perchè quel pensiero avesse idee e parole per formarsi e infine srotolarsi alla luce del sole davanti all'amico, la settimana dopo, cos“ che quel lavorio continuo avesse un in¬terlocutore, finalmente.
La settimana seguente era di nuovo a Milano, nei pressi di San Vittore, davanti a quel portone amato, a quella corte lombarda piena di sole che le regalava sempre un che di sereno perché quando ne usciva era diversa da prima: qualcosa accadeva. Quella volta sal“ le scale in fretta, con una certa ansia che la opprimeva. Era dunque arrivata ad una conclusione: doveva pentirsi di quanto aveva detto perché si era permessa di accusarlo indirettamente di tirannia. Aveva sbagliato anche questa volta. Ma c'era da qualche parte una soluzione? Le stelle non parlavano più.
"L'altra volta ti parlai del mio essere succube, serva di te, ebbene è solamente colpa mia..." cominciò Vaga in quella seduta, dopo una settimana passata a pensar su alle frasi sibilline che aveva udite. Che fatti ci potevano essere se non che lei si era deliberatamente affidata a lui e non si poteva dire che quell'affidarsi fosse stato tradito da un plagio? Lo escludeva, dunque, anche se sapeva che non riusciva ad uscir fuori dalla sottomissione a lui, al suo maestro.
"Che c'entra la colpa qui? Come un prestigiatore hai fatto entrare dapprima il coniglio nel cappello per poi farlo uscire" rispose - la parola non gli mancava di certo - Blasi.
Vaga ammuotol“...la colpa non c’entrava, dunque! Ma allora chissà quante volte s’era caricata di pesi inutili! Le era difficile ancora discernere quando aveva fatto ciò, ma di certo sapeva che aveva bisogno di liberarsi da troppe oppressioni.
Le venne in mente, per associazione, il marito di una sua amica detto "il Mago" che una volta era venuto, vestito di viola, nella scuola Elementare in cui lei insegnava e aveva incominciato a levar dalla bocca una pallina e poi un'altra e un'altra ancora fino a che queste eran diventate decine e lui le aveva lanciate ai bambini, purtroppo neanche tanto affascinati per via del gusto di guardare magie televisive, cos“ che il suo delicato lanciar palle era finito in una sguaiata festa.
Anche Vaga doveva aver fatto uscire delle "palle" dalla sua bocca e dovette convenire che l'uomo sapeva mettere parole originali, là dove lei aveva solo trovato logico manifestare la sua solita arrendevolezza, seminata di sensi di colpa.
"Non c'entra, è vero, con ciò che vado dicendo, non si tratta di colpa, anche se qualcosa mi opprime...non so perchè ti dico questo...io non ho trovato di meglio che seguirti fin da quando ti udii parlare del bene, s“ del bene, in Universi¬tà, e io mi alzai felice di poter dire finalmente la mia a uno che avrebbe capito e che non avrebbe trovato le mie domande assurde; ti chiesi, dunque, dove si trovava allora il bene, pensa, potevo parlare, e non mi sentivo più un Ufo, e tu mi dicesti che senz'altro non dovevo ritenerlo qualcosa che stava nell'iperuranio, ed io dissi di s“, pur sapendo che era l“ che mi trovavo ed era l“ che lo cercavo... alle prese con un mondo delle idee neanche un po' mitico, solo idee mie, veramente eran già di Platone, insomma delle nuvolette vaganti che io tentavo d'acchiappare come fossero aquiloni. Sai che quando studiavo filosofia mi immaginavo il mondo delle idee come un cielo a pecorelle in cui ogni nuvola avesse la sua bella idea: la cavallinità, l'asininità, la sessualità? Ma io voglio qualcosa davvero mio che mi soddisfi, non cerco più angeli di polistirolo o soufflè spirituali, ma qualcosa di tanto atteso, di tanto materiale... da masticare, da avere, da amare, da bere...non siamo forse a Milano? E chi altri mai potrebbe darmi risposte come quella che ora hai dato tu? chi mai potrebbe capire che non c'entra la colpa se non tu? Io a dirti il vero non ho capito ancora fino in fondo l'importanza di ciò che mi hai detto, forse si tratta di staccare qualcosa...non riesco ad andare più in là, ma so che c'entra con la mia vita e tratterrò queste parole perchè diano frutto.
Ebbene, voglio dirti che io mi fido di te, ma ho ancora paura a seguire altri, a volte mi confondono... Sto parlando cos“, come mi viene perchè tu, meraviglia delle meraviglie, non ti sei mai stupito di niente, non ti sei mai scandalizzato dei miei pensieri, tu che hai dato il tuo pensiero a me come ad altri, come fosse un dono, con rispetto...Che ne dici, dunque, di tutto quanto ho detto?"
"Che puoi continuare, vai avanti in questo tuo libero pensiero...comunque è vero che c’è ancora un’oppressione" concluse l'uomo e poi aggiunse:
”D’ora in avanti ci vedremo una volta ogni quindici giorni, sei d’accordo?”
La donna disse di s“, come avrebbe potuto fare altrimenti?

Tornò a casa e si trovò alle prese con la suocera che dalla fine delle vacanze estive s'alzava e salutava cos“: "Sto male, mi fa mal la pancia."
A Vaga vennero i sudori, riconobbe di non poterla più sopportare. Ma che voleva?
"Chiama el dotor che io sto mal, el brusogio dello stomego el dolor de la pancia e questo pindolo che me spunta sotto, el me pende, che è sto pindolo? E poi go un bollo che esce, sarà l'intestin che ne so, e io bevo e basta perchè me vien el vomito a veder il mangià." espose in quel misto di veneto-gotico lombardo la donna.
Vaga pensò dapprima che la suocera credesse che le fosse cresciuto un penzolante membro maschile.
Furiosa urlò: "Il dottore è venuto due giorni fa e tu non gli hai detto niente, perchè ora mi rompi l'anima con le tue fisime? Comunque domani ti porto da un chirurgo, hai uno sventramento e forse ti opererà."
"Ah si? Ma son già stata operada del ventre e ora go mal ancora."
"Appunto, per questo aspetta domani."
"Ghe stato ul me fiol a parlare col dotor, è bravo ul me fiol, anche di piccolo era bravo non parlava mai anche quando era pieno di piscia."
“Se avesse parlato di più sarebbe stato meglio per tutti" ringhiò Vaga che vedeva il suo stare a servire la suocera diventare un fantasma di cui nessuno sapeva dire qualcosa, anzi, era il marito ad essere lodato.
"Andiamo a far la spesa che me manca il latte? e anche qualche coseta..."
“Ogni volta ti porto a far la spesa, ma poi tu mi riporti tutto poco alla volta: latte avanzato, prosciutto pizzicato e un poco puzzone, yougurt bavoso, insalata fradicia e marcia, cornetti secchi e via dicendo...”
"Che colpa ne ho se go il vomito a vedere il mangiar...ieri ho fatto la minestra e go vomitato tutto...”
Vaga potè solo concludere: ”Sarà la demenza...”
Quando la portava a far la spesa, Vaga diventava nervosa: chiedeva alla suocera che voleva e davanti al suo vagare incerto s'innervosiva sempre di più e anche il salumiere rideva nel vederla agitata e intollerante, soprattutto perchè al momento di pagare Teresa non voleva mollare i soldi e intanto, trattenendo il borsellino, guardava la nuora con occhi teneri e ingenui.
Una volta l'aveva condotta in una merceria e, con grande insofferenza, le aveva fatto provare della biancheria intima: le aveva infilato reggiseni, mutande e maglie con neanche un minimo garbo, in fretta, a strappi, presa da furia e furore.
Nel camerino poi soffocava e, data la taglia extra gigante della suocera, Vaga stava appiattita sulla parete come un'acciuga mentre le sue mani allacciavano, infilavano, sfilavano. Ne usc“ talmente sudata e confusa che quando la suocera, prima di lasciare il negozio, scambiò la borsa di Vaga per la sua, lei gliela strappò di mano con tanta foga da far ridere tutte le donne presenti nella bottega. Potè cos“ rendersi conto di tutta l'insofferenza che la invadeva e ne prese atto.
Ma certamente non prima di aver recriminato sul perchè mai doveva capitare proprio a lei una suocera quasi completamente incapace di badare a se stessa e sempre bisognosa dell'aiuto di tutti. Fino a quando il marito di Teresa era stato sano, spesso lei e Bino si erano recati a casa loro a cenare, perchè Teresa era veramente una brava cuoca, la trippa coi fagioli era la sua specialità, ma dopo la morte del suocero la donna, che non aveva mai voluto uscire e neppure si era data da fare a coltivare amicizie, aveva incominciato a rifiutarsi di varcare la soglia di casa da sola e doveva essere accompagnata dappertutto perchè non voleva che gli altri pensassero che non aveva nessuno. Eppure da giovane aveva lavorato, ma non aveva mai desiderato aver rapporti se non con il marito e i parenti. Vaga dunque si trovò a doverla aiutare in tutto e, poiché la donna non voleva dormire sola, l’andava a prenderle tutte le sere e la conduceva a casa il mattino dopo, prima di recarsi a scuola. Qualche tempo dopo una nipote di Teresa, cominciò ad insistere perchè la zia venisse ad abitare in un appartamento vicino al suo “cos“”, diceva, “le avrebbe fatto compagnia e l'avrebbe aiutata.” Vaga dopo molte perplessità aveva acconsentito e la situazione era cos“ precipitata. La nipote, dopo il trasferimento di Teresa, non si era fatta più vedere, ma non solo, recriminava perchè la zia l’andava a trovare: Vaga la sent“ dire, con voce fresca e tenorile, che aveva voluto come vicina di casa la vecchia zia per sentirsi più giovane. Vaga nei suoi confronti si ritrovò a meditare un delitto alla Agatha Christie.
Avvenne che, con il cambiamento di luogo, lontana dall'unica amicizia che sua suocera aveva guadagnato, quella cioè di una signora che aveva un bambino piccolo e che Teresa a volte curava, la vecchia donna incominciò a non prepararsi più da mangiare e a nutrirsi solo di coca cola, vino e mascarpone e divenne, inoltre, a poco a poco, sempre meno autonoma e paurosa di tutto. Per questo Vaga e Bino avevano deciso di tenerla presso di loro sempre più spesso. Una signora, detta "la calzolaia", moglie di un amico del marito di Teresa, che faceva appunto il calzolaio, le aveva proposto, prima che lei cambiasse casa, di andare a vivere con lei, ma anche questa volta la donna aveva detto: "Non ho bisogno di nessuno."
E cos“ Teresa, divenuta quasi incapace di badare alle minime cose, si affidava sempre di più a Vaga, che non faceva altro che condurla in ogni luogo e soprattutto in ospedale perchè la suocera pareva presa da mille malattie che poi si rivelavano, dopo una serie infinita di estenuanti esami, infondate.
Quelle volte in cui la donna voleva ritornare a casa sua, Vaga le apriva la portiera con un sospiro di sollievo per farla finalmente scendere e spesso le indicava qualche signora con cui avrebbe potuto far due chiacchiere, ma Teresa regolarmente rispondeva:"A io non mi piace parlar con gli altri, perchè sto a casa mia e non go bisogno de loro" e se ne andava con passo nobile, dritta più che poteva.
Vaga faceva sempre più fatica a vedersela davanti, ma pensava alle parole del suo maestro: ”E’ un fatto” e alle amiche del suo gruppo che lavoravano per accogliere bambini abbandonati e persone bisognose e allora teneva duro, ma era sempre nervosa. Spesso si chiedeva se le sue amiche, potendole leggere nel pensiero, l'avrebbero cacciata dal gruppo.
Eppure ormai non avrebbe più potuto immaginare la sua vita senza la presenza della suocera. Lasciò quel suo quotidiano rovellio e alzò lo sguardo verso la donna: le sal“ un furore improvviso, come se sulla sua strada avesse improvvisamente trovato un ostacolo. Ma non era quella una realtà vera e viva? Non era un fatto nella sua vita?
"E' un fatto" si ripetè e deglut“.

Nel mese di Ottobre le lamentele della suocera per la sua pancia aumentarono e Vaga, stanca di badar da sola alla donna, per la quale aveva trascorso più tempo in ospedale e dai medici che a letto, invece di prender atto della realtà, costru“ una bella teoria: la donna l'odiava e aveva deciso di farla impazzire, ma lei avrebbe resistito sulle barricate: non aveva sposato Teresa!
Chiamò comunque più volte il dottore, condusse la suocera dal chirurgo, il quale diagnosticò uno sventramento che non era il caso di operare. Questi con mano sicura fece rientrare i cumuli di grasso che uscivano dai punti di una vecchia operazione, elarg“ un sorriso e tutto fin“ l“.
Ma solo per dieci minuti.
"Non mangio, non cago, go il vomito, il male alla pancia, sto male non m'è passato.."
A questo punto Vaga prese una decisione: non avrebbe più ascoltato le lamentele osses¬sive della suocera, frutto senz’altro di una affezione mentale.
Malgrado ciò la nenia continuava, ma Vaga ora non sentiva più e si limitava a chiamare il medico, ma senza risultati.
L'ultima volta le successe di riportare una frase che la suocera le aveva detto qualche tempo prima e alla quale non aveva fatto molto caso, anzi, aveva completamente rimossa: "Prendo sempre il latte, ma cago nero, dovrei cagar bianco.."
Il dottore sorrise e poi disse: "Forse è un'ulcera" e prescrisse la cura.
Vaga cercò di difendersi: sua suocera non si spiegava mai bene e parlava una specie di arabo-fenicio.
"Finisci di mangiare,Teresa, cos“ dopo puoi prendere le pastiglie per l'ulcera."
Ma la donna sputava nel piatto la pastina tempestina e Vaga fu presa dalla voglia di garrot¬tarla.
Urlò: "Da domani vai a casa tua, perchè non ne posso più ."
La donna fin“ di sputacchiare e disse: " Le caramelle, go il brusogio."
Vaga le porse due pacchetti di chicche colorate acquistate in farmacia.
La donna li guardò storto e disse: "In bon?"
Vaga non parlò. Di l“ a poco Teresa si alzò e gridò: "Bino, Bino, m'hanno avvelenato. Sto mal...la pancia..."
Vaga segnalò al marito che ormai la donna non sapeva più quel che diceva. Per fortuna Bino si avvicinò alla madre e dolcemente le disse: "Cosa c'è Teresa? calmati, su..."
Malgrado l’inquietudine le aumentasse sempre più, Vaga stava stretta e dura nella sua convinzione: sua suocera aveva deciso di perseguitarla.
Bino toccò la fronte a Teresa e disse: "Sta sudando freddo, qualcosa ha."
Finalmente Vaga si risvegliò dal sonno e urlò: "Chiamiamo la Croce Rossa e subito."
E cos“ Teresa venne operata d'urgenza di ulcera pilorico-duodenale perforata, complicata da peritonite.
Prima dell'operazione, davanti ai medici che parlavano di una vecchia ulcera, Vaga disse: "Ma siete sicuri?" Era evidente che la sua ottusa presa di posizione non l'aveva ancora abbandonata. Riconobbe che i suoi pregiudizi avevano evidentemente influenzato i medici a cui si era rivolta. Ma non eran solo pregiudizi: in vent’anni nessuno in casa di Teresa, nè lei, nè il marito, nè i figli avevano mai parlato di una tale malattia, ma solo di acidità di stomaco, che Teresa chiamava alla maniera longobarda: “brusogio.”

"Questa notte ho vegliato mia suocera che è stata operata d'urgenza...Era più di un mese che si lamentava e io l'avevo fatta visitare più volte, ma senza risultati, e ti assicuro che davanti alle sue grida e ai suoi lamenti io facevo finta di niente...anzi, la scherzavo...Vorrei farti capire che io ero certa che lei e mio figlio minore mi stavano perseguitando...ero sicura e per questo io stavo impassibile di fronte a loro.." cos“ disse Vaga, sdraiata su un divano, a Blasi, il suo maestro.
"Impassibile? eppure se tu esci di qui non sei impassibile alla pioggia, perchè ti bagnere¬sti... e dunque? Ti do un compito: ti prenderai cura di questa parola e mi dirai..."
Vaga cercò d'andare dietro a quanto quella parola le suscitava e ricordò che spesso davanti ai colpi più gravi, alle delusioni, restava impassibile o ironizzava. Si difendeva cos“. Nulla doveva toccarla, tutto sarebbe dovuto scivolar via come acqua. Ma non solo davanti alle disgrazie diventava un idolo di pietra. Ricordò che quando da ragazza i giovani la invitavano a ballare, lei cercava di rimanere indifferente, non voleva assolutamente che le si vedesse alcun turbamento: si proibiva di avere reazioni.
"Perchè?" si chiese mentre raggiungeva la macchina, parcheggiata in un rettangolo giallo con la scritta C.C., Corpo Diplomatico. Forse che l'atteggiamento stoico, ma gli stoici non eran poi cos“ indifferenti, le si addiceva?
Ricordò un sogno. Stava, bambina, seduta su un cavallo a dondolo e si dondolava. L'aveva raccontato a Blasi e questi le aveva rivolto una domanda strana: “Quando stavi seduta in braccio a papà, ti accorgevi di quanto fosse piacevole?"
"Non mi ricordo di ciò" aveva allora risposto in fretta e con una certa freddezza Vaga. Ma lui non era stato di quel parere e aveva aggiunto: "Mi sembra impossibile che tu non ti sia accorta di quella certa piacevole differenza...Il sogno dice qualcosa di diverso.."
Vaga era ammutolita, e aveva pensato che certe cose non si dovevano dire....anzi si doveva evitare di pensarle perchè proibite. E lui che veniva a dirle se avesse mai preso atto con piacere di quella differenza tra i sessi a lei che, seduta in braccio ad un uomo aveva sempre cercato di ignorare quanto sentiva e si era sempre preoccupata di non aver contatti perchè le sembrava peccato!
Poi le era successo di guardare divertita la sua nipotina e l’amica di questa che, giocando con un uomo, non si erano fatte alcun problema nel cogliere quella differenza...
“Non sei impassibile, Vaga,” si disse mentre sorpassava un mammuth rosso.

Teresa era tornata dall’ospedale abbastanza in forze per non star mai ferma e con qualche caratteristica in più: amava svestirsi sul pianerottolo e fare altro.. Vaga allora si rifece l'elenco infinito delle sue disgrazie, alle quali aggiunse i figli, in perenne adorazione della televisione, non un libro, nulla che facesse capire che non fossero lobotomizzati e il marito, che pareva lavorasse solo per pagar le tasse. E per non finire, in quei giorni le era giunta la notizia che un amico di Bino aveva acquistato una grande casa. L'amico li aveva spesso contattati per acquistarne una in comune, ma Vaga non aveva mai concluso, perchè troppo inquieta per la sua situazione familiare, ma anche perchè aveva paura ad andare ad abitare con degli amici che l’avrebbero potuta criticare. A quel punto le sembrò fosse troppo tardi per tutto.
Ebbe una pensata straordinaria: la realtà, bisognava prenderne atto, era tutta un fallimento...
Una mattina si alzò e sentiva un'inquietudine strana.
"Dammi una camicia" le chiese Bino.
Vaga andò ad aprire il cassetto, ma questo resisteva: era rotto come anche le antine dell'armadio.
Incominciò ad urlare: "Merda, niente casa, niente soldi, niente mobili, tutti falliti, tutti.”
Ormai Vaga era al nichilismo puro, distruttivo, le restava solo l’angoscia.
Certo, pensò, anche lei era una fallita perchè aspettava da mesi la risposta della casa editrice Longanesi per la pubblicazione del suo secondo libro. Fumava..
"Deficiente vai, vai via" le disse il marito "cammina, vai.."
"Perchè mi hai sposato, se non ti preoccupi neppure di farmi avere soldi e casa? io ti ho dato tutto e credevo tu fossi un uomo “in divenire” non al palo” urlò Vaga con quel tantino di filosofico che non guastava!
"In quanto all'averti sposato, me lo sto chiedendo anch'io..."
Vaga tenne rancore con tutti per giorni. Ma poi sent“ forte il desiderio di stringere fra le braccia il marito. Lei lo tacciava d’essere un missionario oratoriano per il suo darsi agli altri senza badare troppo a chi gli stava vicino, ma Vaga, malgrado volesse fargliela pagare, non riusciva a lasciare il suo posto nel letto accanto a lui. Si poteva dire che Blasi e il lettone avevano salvato il suo matrimonio. Anche Blasi, certo, perchè una volta, quando lei ebbe l'ardire di dirgli che voleva abbandonare tutto, fu preciso: "Non farlo, diventeresti pazza" e quando in seduta criticò Bino si sent“ dire: "Chi l'ha sposato?" Le era bastato per dirsi che quella non era strada.
Eppure, malgrado la tenerezza per Bino, la rabbia non desi¬steva: girava per la sua città, Borgo Lombardo, con occhi pesti e cercava consigli e sfogo presso le sorelle.
"Ecco, mi sembra d'essere arrivata a vedere bene la realtà. Non c'è da illudersi. Sto diventando drammatica, non userò più l'ironia...”
Vaga, mentre pronunciava queste parole, stava nello studio di Blasi.
Riprese: "Sono andata avanti sperando e sperando, ora non spero più, vedo la realtà di casa mia in modo chiaro. E non ho più speranza...Però devo dirti che ad un certo punto, davanti ai miei figli stesi davanti alla televisione, ho deciso di preparare il giornalino per l'associazione a cui appartengo..."
"Mi sembra che tu abbia dentro una ninna nanna. Qualcosa come - Va, non va, va, non va - una malinconica ninna nanna che devi aver succhiato con il latte. Vi sei attaccata per un peduncolo, ma non ti appartiene più perchè ora tu sei diversa. La tua è un'equivoca fedeltà a qualcosa d'antico, ad una ninna nanna malinconica, appunto. Piove o non piove, tu dirai sempre che piove. E sotto a questo c'è tutta una ideologia. Devo dirti anche che questa malinconia sarà una tentazione per te, vita natural durante. Saprai cos'è una tentazione, il prete ne parla, io non sono un prete e tu non ti stai confessando, ciononostante tu sarai tentata...Questa ninna nanna ritorna sempre ...Sarebbe già tanto capirne il perchè."
"Ma quando io ti ho fatto capire questo?..."
"Prima e prima e prima, ma non sto parlando dei fatti reali, sto parlandoti di questa malin¬conia e sarebbe già gran cosa riconoscerla, questo è quanto ho da dirti.”
A Vaga venne un'associazione. "Sai," disse "quando ero all'esame di maturità, la presidente della commissione, una simpatica meridionale, vedendo che ero a malpartito con il solfeggio, mi disse di cantare e io intonai una malinconica canzone napoletana: "Fenesta che lucive e chiù non luce", e mentre cantavo pensavo malinconicamente ad un luogo vago e sognante, una specie di paradiso perduto in cui la mia anima affetta da kierkegaardismo potesse annullarsi...ma non è finita, da ragazzina...ricordo che scrissi una canzone dedicata, pensa un po’, ad un impiccato, la leggerezza e l'allegrezza non erano il mio pallino."
"Sono contento di questa tua precisazione, non sapevo di ciò."
Vaga scrisse nella sua memoria qualcosa: nel suo primo libro aveva raccontato tutto questo e lui l'aveva letto....
Non disse nulla, ma pensò a Don Giussani, l'iniziatore del Movimento di Comunione e Liberazione, il quale aveva ultimamente parlato con dei bonzi a cui aveva chiesto se cantavano.
"Certo" aveva risposto uno, "soprattutto canzoni napoletane come -Torna a Sorriento. - "
I presenti avevano riso, ma il sacerdote aveva colto nella malinconia la matrice di quella scelta e l'aveva associata al senso religioso.
"Per me è una tentazione, per loro è espressione del senso religioso, valli a capire!" pensò tra sè e sè Vaga e di questo naturalmente non fece parola con Blasi perchè temeva una sgridata. Lei, infatti, non era un bonzo.
Comunque, si era chiesta, durante un raduno di amici cristiani, se era bene lasciarsi andare dietro a quelle nenie nostalgiche che a volte venivano cantate, perchè le parevano in dissidio con i passi di vita che durante gli incontri erano sollecitati a fare. Poi arrivò alla conclusione che qualcosa di diviso in lei c’era ancora.
Quando tornò a casa, si trovò dietro la porta Teresa, tutta trionfante perchè era riuscita a rendere d’argenteo alluminio quella che era una nera pentola antiaderente...
Il figlio minore, Marco, quella sera arrivò a telefonare per un lavoro in un ristorante. Ebbe un picche come risposta, ma quell'atto ebbe il potere di consolare Vaga. Era forse nella fase ascendente della ninna nanna malinconica?
Pregò, allora, invocando lo Spirito Santo, ma poi ebbe pudore: le sembrava che stesse mescolando il sacro con il profano. Avrebbe voluto fermarsi su quella realtà che la affascinava, su quella persona della Trinità che operava misteriosamente, ma il suo pensiero divenne timido e si ritrasse dal concludere. Si riteneva indegna di un tale dono, eppure lo desiderava.
Perchè mai aveva pudore di parlare di...e, chissà perchè, le vennero in mente le pudenda.
Forse per via di un vecchio sogno in cui si era vista, nella chiesa di San Michele, mentre leggeva, sentendosi indegna, un testo sacro, cercare con grande affanno di coprirsi le pudenda con i pantaloni che, invece, regolarmente le scendevano fino ai piedi. Pensò ad una connessione bislacca, ma possibile. Eppure lei non era spirituale e Dio sapeva che lei era femmina, e forse avrà anche pensato: ”Speriamo che lo sia.”

Vaga in quei giorni dovette convenire che ancora molto della sua vita aspettava una soluzione: soprattutto desiderava la pace.
E questa non stava negli scaffali dei supermercati e lei l'attendeva come s'attende un bimbo.
Quando aveva attacchi di furia e d'angoscia si diceva dove fosse quel bel lavoro che, durante una seduta, il suo maestro le aveva fatto intravvedere quando s'era decisa a non offender più gli altri. Eppure, malgrado ciò, dopo anni di ansia, con vari momenti di dolcezza e d'apertura dovuti alle parole di Blasi, qualcosa di nuovo accadde: un attimo del suo quotidiano cambiò e lei fu invasa da un sentimento di pace, di non obiezione. E per la prima volta non si ritrasse da quella dolcezza come fosse un pasto avvelenato, ma ne gustò i movimenti lunghi, la bellezza dolce, il lento andare di pensieri pacificati non più duri e urlanti.
Quel nuovo accadimento aveva avuto dei preliminari.
Vaga dopo aver capito che la sua assurda indifferenza ai malori della suocera aveva alla base un pensiero paranoico (qualcuno la perseguitava), si era trovata davanti, ancora una volta, due modi per continuare a vivere: processarsi, oppure prendere atto della propria cecità e durezza e aprirsi ad altri pensieri. Prese atto dei suoi pregiudizi e cercò di non scandalizzarsi. Era felice di aver trovato qualcosa in lei da cambiare, da smuovere, qualcosa che finalmente le diceva chi era, come era fatta.
"Guarda un po' come sono stata stronza" si era detta.
Ma poi aveva sbagliato ancora: si era convinta, beata innocenza, che sua suocera sarebbe diventata la sua padrona, colei che le avrebbe dato la chiave per amare la realtà. Questo era nelle sue intenzioni, ma Vaga doveva fare i conti con l'ira che la prendeva davanti alle azioni insensate della donna e dopo essersi detta queste belle parole, non fece più progetti buoni.
E poi finalmente avvenne l’impensabile: una mattina Vaga e la suocera si trovavano vicino ai fornelli, Teresa chiese: “Bino è bravo?"
Vaga, che non aveva mai amato tali domande perchè le riteneva da "mammona", stette ferma un attimo, trattenne la risposta sessantottina, che peraltro ora non aveva più la veemenza di altre volte (era meno coatta e obbligatoria) e, libera dal solito nervosismo, senza alcuna obiezione pronunciò con dolcezza pacificante una frase che Teresa aspettava da anni: "S“, è un bravo figlio, hai fatto un buon figlio". Poi offr“ alla suocera un bicchiere d'acqua.
Teresa rise e disse: "Ul me bionden era bravo a scuola, me lo dicevano tutti."
E Vaga ebbe la certezza che la pace fosse possibile e poteva nascere tra le mura domestiche, alle prese con le minuzie di pollo. Con quel gesto aveva dato soddisfazione alla suocera. Sapeva che Blasi avrebbe approvato: “Un po’ di soddisfazione è sempre bene darla” aveva detto una volta.
Questo fatto aveva dato luogo ad una tregua. Vaga si ritirava a leggere e a scrivere, dopo aver predisposto quanto serviva per il pranzo o la cena e poi cercava, pur con le dovute cautele, di impegnare la donna, la quale amava pulire e lavare gli ortaggi, mettendole davanti montagne di patate e di carote da sbucciare.
E Bino potè finalmente trattare sua madre con ilarità e tenerezza perchè Vaga qualche volta si tratteneva dal dirgli: "Ha fatto questo, ha detto quest'altro" e lui ringraziava Vaga, purtroppo solo con gli occhi, per quell'aiuto insperato.
Poi un giorno andò da Blasi: "Sai, ora so cos'è la pace. Anni fa mi avevi detto che a me mancava un passo di pace. L'ho fatto, e proprio con mia suocera, la persona che meno stimavo, che meno ritenevo adatta. Aspettavo un incontro con chissà chi, mi rammaricavo di non avere una suocera signora, non la volevo, poi, in quel momento, mi sono detta - Proviamo cos“ - e mi son lasciata andare; non ho avuto obiezioni a ciò che mi sentivo di fare e di dire e poi le ho dato un bicchier d'acqua; l'avevo fatto tante volte, ma sempre recriminando, perchè mi sentivo defraudata nel farlo: io, fare da serva a lei! e allora quegli atti era come se non li avessi fatti. Questa volta, invece, l'ho aiutata fino in fondo senza fastidio e la pace è venuta a trovarmi, improvvisamente. Le ho versato l'acqua, le ho offerto il bicchiere con tutta tranquillità, non un pensiero di troppo, guardavo ciò che stavo facendo e mi sorprendevo! Un sentimento dolce già mi aveva preso, avevo realizzato il più grande desiderio della mia vita. Non sono annegata in un bicchier d'acqua! Non sapevo fosse possibile, tu me l'avevi anticipato, io non ne avevo neppure l'idea.” Non disse, però, che anche nel Vangelo si parlava di un bicchier d’acqua.
“Questa è una buona novità. Veramente buona. ti faccio i miei auguri" annunciò con misurata allegria Blasi.

Vaga anche in quell’anno si iscrisse alla Scuola Pratica di Psicologia e Psicopatologia che comprendeva anche un Corso all’Università Cattolica e il “Lavoro Psicanalitico”, quest’ultimo aperto solo a chi volesse o già esercitasse la professione.
La Scuola faceva parte di una associazione di cui Blasi era il presidente.
Tra l’altro, il suo maestro parlò in questa sede anche della malinconia, quella di Saul, però, che David non rallegrava, ma fissava con il suono della sua cetra...Anche sulla nostalgia aveva avuto da ridire. Raccontò che era ritornato sui luoghi della sua infanzia ed era stato preso, davanti ad un teatro, in cui giocava da bambino con i compagni, da una struggente nostalgia. Si era detto: "Non va". Vaga capiva bene tutto questo. Da ragazza, eran le canzoni, magari di Endrigo e di Tenco, a farla navigare in un luogo generico, vuoto, lontano, che lei investiva di dolce nostalgia, senza sapere di che. Aveva fatto anni a vivere solo di questo.
A Scuola le successe una cosa strana: si sent“ subito come un'handicappata: faceva fatica a muoversi e qualche volta era costretta a raggiungere il bagno perchè non poteva tenere la pip“.
Vedendo Blasi in pubblico si sent“ persa, se non perduta. Senza il rapporto privilegiato con lui, si sentiva “un meno.”
Del resto solo lui le aveva detto: "Sei qualcuno, non nessuno."
Ebbene, in mezzo a tutte quelle persone, ritornava ad essere un niente.
Inoltre, quando Blasi e gli altri docenti spiegavano che l’offesa e l’inganno erano degli omicidi lei, che già stava spiaccicata sulla sedia come un lombrico, arrivava a colpevolizzarsi per aver ingannato e offeso chissà quante persone.
“Forse mio figlio, o mia suocera, magari l’uomo dell’acqua, oppure, anche senza saperlo, il sette e quaranta” si diceva, anche se, nei riguardi di quest’ultimo, pensava proprio d’aver delle ragioni.
Le sembrava, dunque, che quelle parole fossero proprio per lei e, di tutto ciò che sentiva, la colpivano come daghe solo le possibili offese che una persona poteva arrecare al figlio o a qualsiasi altro!
A suo tempo, durante una seduta d’analisi, Blasi le aveva pacificamente comunicato che per lei il parlare coincideva con l'offendere (ed era vero: le sue parole le sembravano sempre pericolose) e questo ancora prima di averne l’intenzione. E cos“ quando poi ud“ che dire a un bambino: "Mangia che ti fa bene!" oppure: "Si mangia per vivere, non si vive per mangiare" erano offese di regicidio, ebbe una visione: vide re Baldovino del Belgio, che aveva la gioconda faccia di suo figlio, morto stecchito con un cucchiaio di minestrina piantato nel cuore.
In effetti, a suo figlio minore doveva aver detto una volta che si mangia per vivere e non viceversa, a dire il vero con una nota interrogativa su quanto andava mai dicendo. Infatti, mentre pronunciava quella frase, pensava di quale vita si trattasse mai e immaginava un luogo alto, a cui lei e gli altri erano chiamati. Le era rimasto allora l'interrogativo di come si facesse a vivere l“ e che vita sarebbe mai stata, visto che il godere del cibo era saltato a piè pari in vista di un moto aereo in cui il corpo non c'entrava. Meno male che Marco aveva continuato a star bene!
Eppure Vaga si fidava di se stessa, del suo foro interno, e s’accorgeva quando lei o gli altri volevano confondere le carte e se lo diceva e, quando s’arrabbiava, urlava, inveiva, non lo faceva ora per offendere, ma per rompere rapporti pietrificati. Certo, non aveva modi classici, non era una “brava persona”, l’aveva sempre detto.
Malgrado la sua sicurezza interna, Vaga era sempre incerta nell’emettere giudizi, tanto che in una seduta Blasi le aveva detto:
“I tuoi giudizi son l“, l“ per uscire... ma...poi..”
Dovette convenire che gli altri la confondevano.Tempo prima, lei prendeva per oro colato i giudizi di alcune sue amiche, ora, senza alcun distacco, riteneva sacro quello che si diceva alla Scuola e cos“ si colpevolizzava e si sminuiva, facendosi sorgere mille dubbi. Quando poi si trovava a contatto con la sua realtà quotidiana, prendeva con impeto la situazione in mano e la risolveva come poteva, secondo il proprio pensiero. Veramente anche su questo ci ricamava poi sopra, complicandosi la vita.
“Sarà il mio Nemicazzo, il Super io, a giudicarmi sempre e comunque indegna, oppure c’è altro?” si disse: in quel momento era incerta anche su quello.
Una sera, dopo un litigio con Bino, mentre era sola nella cucina ingombra, Vaga pensò che a quel punto le mancava solo di morire e ci fece su un pensierino. Poi riconobbe che quel nero affetto che l'aveva presa non era altro che un attacco di malinconia.
Si riprese e sperò ancora: attendeva solo il momento di pensarsi e guardarsi con indulgenza e tolleranza. Sapeva che da ciò dipendeva la sua felicità. Non capiva ancora in che modo ciò avrebbe potuto succedere, ma sapeva che sarebbe successo...perchè in lei c’era un pensiero che lavorava, quasi a sua insaputa, e che avrebbe fatto in modo che succedesse...
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Blasi, e questo colp“ molto Vaga, durante una lezione della Scuola, sorridendo benigno, ma senza scomporsi, s’era messo a scrivere geroglifici sulla lavagna e candidamente confessava davanti al suo operato: "Ma si può scrivere cos“?"
Verso di sè aveva quella benefica tolleranza che Vaga, incantata, desiderava. Si perdonava, ecco; del resto, diceva: ”Se aspetti che ti perdonino gli altri, stai fresco!”
Ma quello che più l'aveva divertita e l'aveva reso familiare a sè, come un amico a cui si perdona tutto, erano stati degli episodi verificatisi ad un convegno della Scuola tutto in francese, perchè gli invitati d’onore erano degli analisti parigini. Blasi, che amava fumare, in mancanza d’altro si era fatto un portacenere con un foglio di carta che assomigliva alle barchette dei bambini e che poi aveva appoggiato al pavimento. Vaga stava dietro di lui e nel vedere quel coso bianco e sottile, graziosamente posato sulla moquette della sala, aveva cominciato a ridere. Dopo un po' un amico di Blasi, che stava a qualche poltrona di distanza, vedendo alzarsi dal pavimento un filo di fumo si era precipitato a spegnere il piccolo incendio: le sigarette di Blasi avevano semplicemete bucato la moquette di panno color cognac. Il giovane amico aveva riparato al danno con molta discrezione, muovendosi come l’uomo ragno davanti a Blasi, il quale pareva non essersi accorto di nulla e continuava a relazionare in perfetto francese. Poi, un altro foglio, misteriosamente, sempre a mo' di portacenere venne appoggiato, questa volta, ad una sedia imbottita, accanto a Blasi.
Bino, che stava al convegno un po' frastornato, come di fronte ad una radice quadrata insolubile, ad un certo punto vide la sedia davanti a sè incominciare a friggere e chiese aiuto al simpatico "fireman" che, ancora una volta, come ombra benefica, fece sparire il foglio bucato pieno di cicche spente o quasi, sempre nella completa indifferenza di Blasi, preso del tutto nelle spire del dibattito e forse dal pensiero che lui stesse già facendo abbastanza e non si poteva chiedergli di più. Ebbene, Vaga trovò che il suo maestro era veramente simpatico, soprattutto perchè, qualche tempo prima, lui stesso aveva ammonito la persona sconosciuta che aveva spento una cicca sul pavimento della sala moquettata dell'Università Cattolica, cos“ che il gruppo era stato sanzionato, la volta dopo, con un cambio d'aula dall'acustica pessima.

Ritornò da lui, nel privato del suo studio e gli disse: "Avrei qualcosa da dirti, ma ci rinuncio."
"E perchè?"
"Perchè voglio vedere che succede se non te lo dico."
Rinunciò a parlare di quella sofferenza che le frasi dette alla Scuola Pratica le procuravano, perché non voleva ripetere le solite lamentele, dirgli che molte delle parole che sentiva le facevano male. A differenza di prima però, sapeva, riconosceva, che c'era una soluzione. L'agognava, la desiderava.
In quanto ai rapporti in quei luoghi non aveva nessuna intenzione di "fare il di piu". Se ne sarebbe stata al suo posto, timidissima, arricciolata, intubata, ma non avrebbe mai più buttato frasi cretine a chicchessia per dirsi che c'era anche lei. Certo, c'era anche lei, ma solo nel modo che in quel momento riteneva possibile, il resto sarebbe venuto anche per movimento d’altri, lo sapeva, ne era certa.
"Bene" disse lui, non è dunque per rimozione. Stiamo a vedere."
Vaga si alzò e salutò.
Quella sera quando tornò a casa, un che di acre le arrivò alla gola, segu“ la pista più probabile, visto che lei era priva di olfatto e andò in cucina: sopra una pentola che bolliva stava un coperchio di plastica tutto raggrumato per il calore..
Teresa rideva felice davanti al suo capolavoro e, appena scorse la nuora, annunciò: ”Ho deciso di preparare un brodo...”
“Di plastica?” fu l’interrogativo amletico di Vaga.

Un pomeriggio Vaga portò a Blasi un'analisi di un testo moderno in cui si criticava la coppia complementare e gli disse: "Erano belli gli anni Sessanta. C'era un'atmosfera di attesa, sembrava che tutto dovesse andare per il meglio."
Vaga faceva la nostalgica del nulla e lui, ben sapendo che gli anni sessanta eran stati gli anni peggiori della vita della sua cliente e non avendo nessuna simpatia per le varie atmosfere più o meno fumose, commentò: "Anche questa volta fai un fioretto. Lo sai, vero, cos'è?"
Vaga rise. Era dai tempi dell'oratorio che non ne sentiva più parlare. Anche la madre glielo chiedeva sempre: “Fai un fioretto”, le diceva, ma Vaga non aveva mai voluto saperne e se accontentava la madre era per poi poter urlare alla luna la sua rabbia cosmica.
Ora l'accettava: la via che aveva intrapreso era la più bella e affascinante che mai avesse sperimentato. Lui era ancora accanto a lei e questo le bastava per rinunciare alle scempiaggini "atmosferiche", con la sola fatica di giudicare quel pensiero come demente.
Per lui il fioretto doveva essere una strana rinuncia. Diceva sempre: "Rinunciate a rinun¬ciare." In effetti il rimanere legati ai favolosi anni sessanta era pura follia: chi come Vaga aveva incominciato a impastarsi con la realtà lo sapeva e quello di parlargliene era stato un mezzuccio per scrollarseli di dosso per sempre.

Poi qualcosa di nuovo accadde.
Aveva incontrato due simpatiche amiche: una signora dalle lontane origini russe (per via della nonna materna fuggita durante la rivoluzione del diciassette e sbarcata prima a Parigi e poi a Milano) il cui accento suonava dolce alle sue orecchie e una ragazza bruna che Vaga guardava ammirata perchè era curiosa e interessata a tutto. Quello di cui non riusciva a capacitarsi era come mai quelle due signore le stessero attorno divertite per ciò che lei diceva. Ogni tanto si faceva una domanda: "Ma saranno sincere?" e lei desiderava tanto che lo fossero. La signora russa, psicologa, faceva molto divertire Vaga. Una sera raccontò che aveva avuto dei problemi perchè si era data da fare non solo con una sua paziente, ma anche con tutta la famiglia di questa. Aveva brigato tanto da averli presto tutti sul gobbo: in processione, come i musicanti di Brema, nel suo studio eran venuti i suoceri, i genitori della sua cliente e pure dei parenti per dirimere le questioni che si facevano sempre più complicate. Cos“ il suo studio era divenuto una specie di cortile simile a quello delle vecchie case a ringhiera. E lei ne parlava sconcertata e delusa. La cosa colp“ molto Vaga abituata com'era al silenzio dello studio del suo maestro, alle parole misurate, ai pochissimi consigli e a nessuna interpellanza parentale. Di suo padre aveva detto solo: "Anche lui ha fatto ciò che ha potuto."
Questo modo di risolvere le questioni aveva abituato Vaga, durante gli anni di analisi, a far affidamento solo sul rapporto con Blasi e mai si sarebbe sognata di far intervenire altri. Veramente all'inizio dell'analisi ci aveva provato, chiedendogli di parlare con i suoi genitori, per perorare la sua causa. Ma non aveva ricevuto alcuna risposta. Tutto era passato nel silenzio.
La psicologa russa aveva raccontato la sua disavventura di psicoterapeuta a Vaga, tenendo tra le mani una bottiglia di Bordeaux, uno Chateau Latour d’annata, che avrebbe voluto consegnare a qualcuno della Scuola per una storia di inviti, ma fino all'ultimo si era tenuta stretta quel rosso dono e per timore non l'aveva più mollato.
Vaga provò simpatia per quella donna: per molti versi le assomigliava. Anche lei in fatto di regali non aveva avuto coraggio. Li comprava e poi li tratteneva per la vergogna. Specialmente i completini da bambino. Quando nasceva agli amici un piccolino, andava a comperare un vestito da neonato, ma regolarmente non si recava a casa della fortunata famiglia, perchè presa da angoscia.
Spesso si era chiesta perchè facesse questo e aveva concluso che probabilmente il fatto di non aver avuto figli naturali era rimasta una piaga nel suo cuore e per questo faticava a condividere la gioia altrui; forse non voleva dare soddisfazione alla famiglia felice, probabilmente per invidia: cos“ il suo armadio era zeppo di abitini rosa e azzurri. Se avesse rinunciato alle sue obiezioni, avrebbe usato quei pizzi e pon - pon per avere qualche amico in più e del posto da utilizzare nel suo armadio stracarico.
L'amica russa di Vaga aveva in comune con lei un'ospite: la suocera. Di lei diceva che era il manifesto dell'insoddisfazione perchè stava ingrugnita tutto il giorno.
"Pensa, Vaga, le ho concesso il mio letto matrimoniale, io ora dormo nella camera di mio figlio, mentre mio marito riposa sul divano, eppure lei non è ancora contenta."
"Io non l'avrei mai fatto" aveva risposto ridendo Vaga, "ad ognuno il proprio posto."
La simpatica psicologa aveva avuto una vita molto avventurosa e quando Vaga l’aveva conosciuta si era detta che senz’altro, durante il sessantotto, doveva aver avuto come compagno un rivoluzionario terzomondista. Questo perché sapeva che aveva vissuto in America Latina, durante gli anni settanta, dopo aver frequentato l’Università. Poi Vaga apprese dalle confidenze dell’amica che, sull’onda dell’ubriacatura sessantottina, lei si era innamorata di un professore di università messicano, di passaggio in Italia per delle conferenze e l’aveva sposato a Città del Messico.
Era stata una decisione improvvisa, dopo che i suoi genitori, ricchi borghesi, non avevano approvato il suo precedente fidanzamento con un giovane di modeste origini. Allora si era detta, parafrasando ante-litteram uno spot pubblicitario: “Un professore universitario vi va bene? Se va bene a voi, andrà bene anche a me” e aveva cos“ fatto tacere dentro di sé delle giuste obiezioni che le erano nate per il comportamento a volte intollerante dell’augusto docente. Il giovane uomo messicano la attirava per la sua intelligenza ironica, per i suoi giudizi taglienti e per quel tanto di snob rivoluzionario che si portava dietro. E allora si era detta che non era più il caso di aver tante fisime, perché il mondo stava cambiando e, con un esaltante volo d’angelo, l’aveva seguito in America. Dopo essere stati ospitati dalla suocera per qualche mese, gli sposi erano andati ad abitare in una vecchia casa vicino alle bidonville di Città del Messico. La dimora, seppur patrizia, era spoglia e suo marito, questo lo cap“ a poco a poco, non aveva nessuna intenzione di arredarla. Venne fuori che il suo interesse preminente non erano i ninnoli di casa, ma l’acool, s“, amava qualsiasi tipo di beverone.
Quando si accorse di ciò, era ormai incinta e lui si era fatto sempre più esigente e rabbioso.
Alla sera alle dieci spesso la cacciava di casa, senza soldi, perchè cercasse da bere e lei girava tutti i locali della zona per poter riportare nella propria dimora qualche mistura alcoolica. Se ritornava a mani vuote, l’aspettava una violenta scarica di pugni. E cos“ il sogno rivoluzionario di un mondo nuovo era annegato in una bottiglia. A poco a poco scopr“ anche altre cose: suo marito era in cura da uno specialista perché soffriva di paranoia e doveva ogni giorno calmarsi con degli psicofarmaci. A quel punto le ritornarono alla mente le sue obiezioni, ma era ormai troppo tardi. Tardò a rivolgersi ai suoi genitori che si erano solo preoccupati che lei sposasse una persona importante ai loro occhi e che ora vivevano pacificati d’aver finalmente sistemata la figlia. Il suo annichilimento sarebbe anche stata la sua vendetta nei loro confronti.
“Se è andato bene per voi, andrà bene anche a me, a costo della mia vita” si ripeteva.
E cos“ avvenne o quasi: quando partor“, andò in coma e solo per un miracolo ne usc“ viva, ma completamente debilitata. A questo punto le parve che la vendetta non dovesse avere più ragione e pensò di ritornare a Milano. Si mise finalmente in contatto con i suoi e raccontò loro la sua vicenda, poi mise a punto un progetto: cercò di convincere il marito che i suoi volevano vedere la piccola nipote e dunque lei li avrebbe raggiunti in Italia e sarebbe poi ritornata al più presto da lui. L’uomo incominciò a manifestare con la solita violenza le sue obiezioni e durante una di queste sue belle manifestazioni rivoluzionarie ebbe un collasso. Mor“ pochi giorni dopo nell’ospedale di Città del Messico per grave intossicazione di farmaci e alcoolici.
L’avventura messicana era cos“ finita e la signora potè ritornare in Italia e ricongiungersi, dopo una fuga d’amore (i suoi non erano ancora convinti della scelta) con l’antico amore.

Vedere Blasi fuori dallo studio d'analisi, circondato dai suoi collaboratori, la sconcertava ancora, ma a Vaga piaceva sempre di più frequentare la Scuola di Psicopatologia e trovarsi in mezzo a quel gruppo numeroso di educatori, docenti, analisti, ex analizzati, e ancora, come disse una volta Blasi, nullafacenti, nullatenenti, precari, disoccupati, cronici, come in una famiglia in cui vi siano tanti fratelli. Soltanto che, tra tanti fratelli ve ne era una, lei, Vaga, che desiderava essere la privilegiata del padre.
In una seduta ormai remota aveva raccontato la scena di un litigio con la sorella su chi avesse dovuto preparare la zuppa al papà. Si erano trovate in disaccordo: ”Tocca a me”, “No, faccio io” e cos“ si erano azzuffate e graffiate. Lei era sempre stata gelosa di tutte le sue tre sorelle, ma soprattutto di Rita, la preferita del padre, con la quale, quella volta, si era accapigliata.

Una sera venne un uomo di Borgo, specializzato in biologia, che faceva ricerche sul cervello.
Era un tipo che non avrebbe mai fatto una lezione tutta di filato, tanto il suo era un muoversi da un'intuizione ad un’altra. Era stato chiamato per parlare del cervello, ed esord“ invece con una chicca magistrale: odiava i topini su cui faceva esperimenti perchè questi, dopo solo venti giorni, eran già adulti, mentre lui, più che quarantenne, stava ancora faticando per diventarlo. E cos“, quando li ammazzava, si incrudeliva sempre di più perchè arrabbiato per la loro velocità di compimento.
Vaga notò che il docente seguiva il suo pensiero e lo esprimeva come gli dettava, facendo collegamenrti, confronti, tutto eccitato dalla possibilità di parlare dietro intuizione, senza essere costretto da un tema stringente, come gli capitava, invece, di fare in Università. Era uno che amava il suo pensiero.
L’uomo disse poi una cosa eccellente: "L'odio, la rabbia ti fanno conoscere la realtà, è una modalità di approc¬cio al reale": attraverso questi sentimenti, aveva capito che i topini si muovevano per istinto, mentre lui aveva bisogno di trovare un modo, di percorrere una strada per raggiungere ciò che voleva.
“Non si fa problemi ad odiare” si disse Vaga incuriosita “gli animalisti lo farebbero fritto.”
Convenne poi che lei faticava a riconoscere di odiare, non se lo permetteva.
E per opposizione si chiese se la pace poteva essere uno stato permanente, una specie di nirvana di fondo oppure, come fino ad allora le era capitato, solo legato a dei momenti, quando ad esempio si era lasciata andare ad un delirio durante una seduta ed il suo maestro le aveva detto allora che una puntatina delirante poteva andare bene, ma poi basta.
Si chiedeva questo perchè per lei nella realtà molte cose erano ancora occasione di turbamento.
Ricordò quando, beatamente allora, ma era ancora sotto analisi intensiva, ud“ un relatore parlare di ubris dal basso e riconobbe subito il suo peccato: si era fissata a Dio per non andare all’inferno! Di quell’intuizione non si era addolorata, ma era stata felice, tanto che si sarebbe bevuta una bottiglia di champagne per festeggiare. Era cos“ che voleva la vita, ricca di scoperte continue.
In effetti, quando Blasi era il suo Blasi, lei aveva tanti problemi, ma la sua vita era più leggera, perchè c'era lui, e lei pensava che qualsiasi cosa avesse fatto, a lui avrebbe potuto dirla come se fosse stato il garante di lei. Le sembrava di vederlo a volte ergersi come la statua della libertà per dire: “Garantisco io per lei.”
La sua presenza durante l’analisi suggeriva a Vaga che lei valeva qualcosa e che ciò che scopriva, diceva, decideva, era importante: l’incontro con lui la alleviava dall'oppressione che spesso la prendeva.
Lasciò il filo dei suoi pensieri e ritornò ad ascoltare il biologo di Borgo che lei conosceva da anni e che l'aveva sempre colpita per i suoi modi: quando si stava preparando agli esami di Medicina, durante una vacanza di studenti e lavoratori, si faceva interrogare da un amico su anatomia e intercalava ogni frase con un insistente "cazzo". Era un tipo eccitabile, nervoso, non stava fermo un secondo sulla sedia e, appunto, ripeteva quella parola come fosse una giaculatoria e non se ne vergognava affatto.
“Ma allora si può essere cos“ senza vergognarsi” si era detta Vaga in quell’occasione.
"La mente non esiste, che è la mente? Io parlerei di cuore" disse ancora il docente.
"E perchè non di fegato?" intervenne una signora che Vaga aveva riconosciuto essere la sorella di Blasi e che aveva sempre delle intuizioni geniali.
"Dove ci vuol portare col suo discorso, dove va a finire?" continuò la signora.
L'uomo stava con la bocca un poco aperta e con gli occhi andava dietro ai suoi pensieri; poi aggiunse:
"Ecco, dicevo, l'ape è attratta dal fiore, noi siamo attratti da qualcosa più grande di noi, noi andiamo verso qualcosa che ha una corrispondenza con noi, una adaequatio rei intellectus, noi andiamo verso.... Cristo"
"Paragonare Dio a un grosso fiore e noi a piccoli fiori suoi sudditi mi sembra un errore, non oserei mai dire a una donna che è come un fiore, io se fossi una donna mi offenderei, non mi offenderei se si parlasse di noi come bene e di Dio come Sommo Bene, sono tomistico dunque" fu il commento di Blasi.
Vaga si soffermò sulla frase: "Noi siamo un bene".
Stranamente Blasi guardava beato l'uomo di Borgo e gli significava con quello sguardo la sua simpatia anche se lui s'era messo in grossi pasticci tirando in ballo anche Gesù Cristo e gli disse:
"Vorrei dire una cosa. Tu fin dalle prime lezioni dicevi che nell'ameba, essere unicellurare, il comportamento si modifica se all'interno della cellula si introduce dello zucchero..e tutto questo lo hai ricollegato a delle funzioni cerebrali. Anche gli uomini hanno di queste funzioni, il cervello sa fare il suo bravo lavoro, ma tu dall’altra parte metti mente e cuore, per cui non diresti mai mente e cervello, come se la mente fosse un altro organo. Sei dunque un ricercatore contro corrente... Bene fin qui. Questa cassetta registrata è eccellente. È da tenere in cassa¬forte."
Appena usciti Vaga e le amiche incominciarono a discutere.
"La sorella di Blasi ha esagerato con il tono verso il docente. Mi sembrava arrabbiata."
"Anch'io sono arrabbiata: la signora ha ragione. Blasi è sempre precisissimo in analisi: se tu ti metti a fare estrapolazioni mistiche, lui ti mette a regime e ti guarda come fossi un mostro. Io sono incazzata quanto la signora, anzi sono gelosa, forse come lei, perchè Blasi guarda dolcemente e conclude ilarmente con quell'uomo di Borgo, qualsiasi cosa lui dica. Quando Blasi venne a Borgo e qualcuno parlò della Grazia lui si inalberò talmente e disse - Di che stai parlando? - Non voleva confondere i piani."
"Già, e qua invece sembrava andare a nozze" disse la signora russa.
"Vedeva che l'uomo era sincero, voleva scoprire a che punto fosse il suo ragionamento, dietro a quali idee andasse, forse pensava ad una riforma degli intelletti e per questo permetteva si parlasse cosi" rispose poi, Vaga, con un'aria un poco mistica e compunta, ma non del tutto convinta, e poi le balenò che il suo maestro avesse, s“, proprio lui, delle preferenze. Come tutti, dunque, come tutti.
"Vorrei anch'io essere la sua preferita" si disse, ma poi si ritrasse un poco da quel pensiero. Doveva essere molto impegnativo esserlo!
Le venne in mente un modo più libero, meno dogmatico di esprimersi, s“ perchè anche lei si sentiva di andare dietro a quanto le frullava nel cervello, sapeva anche di essere capace di "dare i numeri" di fronte al suo Maestro, ma era sempre stata nei ranghi per paura.
Pensò ad una riscossa. "Anch'io voglio andare dietro al mio pensiero" disse tra sé.

Vaga desiderava sempre di più possedere una grande casa a Borgo Lombardo in cui poter scrivere, lavorare, ricevere con dignità. Certo, lei vi avrebbe anche voluto un maggiordomo, una cuoca, una donna che avrebbe potuto assistere Teresa, ma si sarebbe accontentata anche di meno, magari di una persona che l’avrebbe aiutata durante il giorno.
Ma non voleva decider questo da sola: non si prende una grande casa per fare un giro sui pattini tra stanze vuote, ma per abitarvi e goderla con gli altri, in questo caso i suoi familiari.
Bino aveva altri intenti: a lui sarebbe andato bene anche un monolocale, magari un poco spazioso, in cui cinque persone avrebbero potuto stare cos“ vicine da risparmiare anche sul riscaldamento. L’importante era che tutto fosse in ordine!
Davanti a questi suoi ragionamenti rigorosi, Vaga veniva presa da attacchi d’asma, per mancanza d’aria.
E allora Bino, con acume, apriva le finestre di quell’abitazione all’ultimo piano, e le faceva ammirare il tramonto rosato e le cime lontane delle Alpi, cos“ che Vaga potesse contemplare ampi e infiniti spazi ...e magari “andar di poesia.”
Meno male che non faceva come il padre di Kierkegaard che, alla richiesta del figliolo di girare per la città, gli metteva davanti dei quadri, del resto cos“ aveva fatto la nonna materna di Vaga con sua figlia!

Il pensiero notturno di Vaga si diede da fare per darle una mano e le regalò un sogno.
Era sera e lei entrò in una strana banca che assomigliava ad un Casinò; vi aveva portato dei soldi, ma non era chiaro, forse erano soldi che lei doveva avere in deposito e che il cassiere stava contando. La banca era immersa nel buio ed era illuminata solo da una lampada sopra la cassa. Il bancario, in mezze maniche, passava i contanti tra le dita, mentre Vaga era in ansia perchè sapeva che non erano sufficienti per ottenere quello che desiderava: acquistare una bella casa. Era andata l“ lo stesso, sola, con quel suo modo alla speraindio che a volte la prendeva, desiderando che qualcosa succedesse, anche contro la logica matematica. Ma poi l'uomo aveva detto: "Mancano ancora dei soldi, non è possibile."
Era stato duro, e lei aveva notato in lui, in quei suoi modi da snob, un certo disprezzo. Come lei, Vaga, aveva potuto osare?
Da sveglia s’era detta che la storia del disprezzo era una storia antica: lei, da ragazza, si era sempre sentita disprezzata dai ricchi e da quelli che abitavano in centro e ora che lei agognava una casa proprio l“, ricca e bellissima come un castello, i soldi non erano sufficienti. Sapeva che il desiderio di una casa era legata a suo padre. Lui gliela aveva promessa, ma lei l'aveva rifiutata perchè non voleva sposarsi. Poi, dopo la decisione per il matrimonio, presa di notte dopo aver finalmente realizzato un pensiero positivo sul suo futuro, aveva fatto altri sbagli: si era accontentata di un appartamento in periferia, neanche in centro, anche se avrebbe potuto averlo. Era il suo sentirsi sempre e perennemente Cenerentola ad averla fatta decidere a nascondersi nella cenere periferica. Il suocero, due anni dopo le nozze, le aveva detto che vendevano una abitazione molto bella, ma lei aveva reagito male a questo consiglio. Per il solo fatto che glielo avesse suggerito lui, che lei riteneva un povero ignorante, non ne aveva fatto niente, anzi, si era messa ad urlare perchè lei “la casa l'aveva già. E che dunque non s’impicciasse.” Semplicemente lui l'aveva eccitata a desiderare di più, ma lei aveva rinnegato. Da un povero non voleva accettare nulla, insomma non voleva dargli alcuna soddisfazione, e cos“ aveva rinunciato alla realizzzione del suo desiderio. Sbaglio su sbaglio.
Al pensiero di come l'aveva trattato le venne da piangere, ma non su di lui, bens“ su di lei, che si era comportata come una demente, avendo perso una bella occasione di vivere meglio. Se invece di sentirsi Cenerentola, favola nevrotica, si fosse sentita Biancaneve, figlia di re, la sua vita quotidiana sarebbe cambiata di molto. Innanzitutto con Bino che, probabilmente, in una villa lussuosa avrebbe smesso già da subito i panni del principe ranocchio per vestire quelli solo regali del principe.
Il sogno aveva avuto una seconda parte. Era fuori dalla banca, che pareva appunto un casinò, e aveva incontrato una frotta di ragazzi burini, arroganti, dei tipi dai capelli unti e dal puzzo preistorico. Lei stava davanti a loro e, invece della paura di essere aggredita, pensava che non fosse degna neppure di essere violentata da loro perchè era piccola e insignificante, un niente, dunque. Neanche per quei soggetti violenti sarebbe andata bene.
Era un sentimento di sè cos“ antico che ora veniva a galla in modo preciso. Dunque ancora una divisione: da una parte il desiderio di ricchezza, seppur deluso, dall'altra il sentimento di sè come nullità, non degna neppure d'essere violentata da soggetti da Bronx, i quali, con la loro arroganza e sincerità bruta, la giudicavano un niente.
“Che qualcuno mi significhi che non sono “nessuno”! Blasi l’ha già fatto, ma ora non mi basta più” urlò al cuscino, da sveglia.
“Ma Blasi ha anche detto che chi passa la vita a dirsi che è brutto e cattivo, è malato...” le disse una voce interna, crudele come l’antagonista di Amedeo Nazzari nel film “Catene.”
“Ancora?” si disse tra sè e sè Vaga.

Davanti alla prima serata di nebbia di quell'anno di grazia millenovecentonovantatre, Vaga ripensò agli avvenimenti che avevano visto suo figlio minore Marco, come protagonista indiscusso. Come in un pazzo film di Goddard, eventi, decisioni, colpi di scena s’eran succeduti dal Natale del novantadue in poi.
Tutto era iniziato da quando, appunto l’anno prima, Vaga e Bino, dopo aver aiutato per l’ennesima volta il figlio, quasi diciottenne, a trovar lavoro come cuoco presso un nuovo, ennesimo ristorante, s’eran dati pure la briga di accompagnarlo ogni giorno e di verificare presso il ristoratore i suoi eventuali progressi. Vistosi braccato, il giovane, prima di Natale, aveva incominciato a lanciare frasi forti del tipo: "Il mio padrone, io lo so, fa la tratta delle indocinesi, le va a prendere e le mette sulla strada" diceva, magonando ai crudeli genitori. Poichè Vaga e Bino non ci cascavano, erano anni che il figlio cercava con ogni mezzo di procurarasi anni sabbatici, il ragazzo aveva abbassato il tiro e aveva confessato piangendo che il cortile del ristorante era divenuto luogo di ricettazione di motori e di pezzi di ricambio Porsche.
L’impassibile Vaga aveva mostrato una faccia di pietra e allora Marco, dopo la visita natalizia degli zii Cora e Carlo aveva fatto carte false per seguirli a Reggio a confezionare, nella ditta dello zio, tortillas messicane che, come il Mambo, andavano di moda.
Vaga, pur senza olfatto, sent“ odor di tortilla bruciata, ma Bino acconsent“.
Dalle telefonate a casa pareva che il giovane s’ammazzasse dalla fatica e per di più si fosse convertito: seguiva lo zio alla Messa dell’alba, ogni giorno.
Una mattina alle otto Vaga ricevette una telefonata. Dall’altro capo del filo dopo un attimo di silenziosa suspence sent“ declamare: ”Il Gange era basso e le foglie flosce attendevano la pioggia...la giungla s’acquattava, ingobbita nel silenzio. Allora parlò il tuono...”
“Casa Eliot?” chiese ridendo Vaga, dopo aver riconosciuto la voce del figlio e un brano della “Terra desolata”
“Sono Marco, non Elio, cosa dici?” era stata la risposta, poi il ragazzo s’era messo a descrivere una donna che mangiava i bignè cos“ come ne parlava Sinjavskij. Ma non era finita: dopo aver parlato della speranza come di una bambina che trascina due sorelline, la fede e la carità, all’oratorio... s’era lanciato a disquisire sul destino storico dell’umanità e sulle sue quattro epoche che cos“ esplicitava: “Barba...r“e, cultura e lavoro, civilizzazione e sfi...gurazione religiosa..”
“Mancano solo i capelli a questa quadriade, ma dimmi, tu in che epoca pensi di trovarti?”
“Alla barba....” rispose Marco, dopo aver fatto di Peguy e di Berdjaev un tiramisù esotico.
Vaga soprassedette e si fece precisa: ”Ma lavori?”
“Gli Aztechi che preparano le tortillas sono andati via e allora io faccio G.S. con gli studenti che preparano gli esami.
Vaga e Bino piombarono a Reggio: il loro grande pargolo riposava ancora.
Quando si svegliò, dopo aver parlato degli studi che andava facendo, deragliò su una richiesta da “Cuore.”
“Io penso sempre ai miei genitori di Campobasso e voglio andare a trovarli da quando mi avete adottato” disse.
“E hai ragione, ti consiglio io di andarli a trovare e se hanno bisogno di te, fermati pure e aiutali col tuo lavoro.”
Dopo lo sguardo stupefatto di Marco alla risposta di Vaga, venne fuori una storia di litigi con gli zii e con gli amici per via di un'uscita a Rimini con Gioventù Studentesca, in cui Marco, invece di partecipare all'assemblea, aveva con male parole preteso di andare sulla spiaggia dove c'erano i tossici che si imperacchiavano.
Vaga seppe da una tremante Cora che il giovane aveva pure crisi depressive e che lei s’era data da fare per consolarlo. Poi aveva aggiunto: "Quando è a tavola, dice - Che bello, siamo tutti insieme. -”
Vaga girò lo sguardo sulla dispensa della cognata e vide piatti, scodelle e cuccume del “Mulino Bianco” e pensò alla Famiglia Felice. Poi parlò con la madre di Cora che buttò l“: "Se lo porti via Marco, non è bene che stia l“."
Vaga intu“ la ragionevolezza di quella frase, ma la banalizzò a suo danno. Disse a Cora quanto aveva sentito e lei: "Mia madre non capisce i gesti di accoglienza."
"Forse Cora è mistica" pensò Vaga e le venne un'allucinazione: vide la bella cognata coperta da drappi preraffaelliti che cantava arie da New Age.
Si arrivò ad un compromesso: Marco sarebbe rimasto ancora per qualche tempo, ma in qualunque caso avrebbe lavorato e inoltre avrebbe seguito gli amici di G.S.
A casa Vaga ebbe un’altra visione: un Azteco, correndo urlava: "Fermalo!" e poi seppe di una realtà: il figlio, prima di partire per Campobasso, mentre stava solo in mezzo al campo da pallone, senza nessuna palla tra i piedi, s'era prodotto una lussazione alla caviglia e del viaggio non se ne parlò più.
La telefonata d’aprile fu degna di Santa Caterina da Siena: "Voglio andare a Denver con il Papa" e Vaga pensò che il figlio fosse diventato guelfo e diede il suo consenso: cos“ le toccò di preparare documenti e bagaglio e Marco, pur non lavorando ancora, si fece vedere solo per una firma inevitabile.
Quando entrò in casa Vaga notò solo i suoi capelli ossigenati come quelli del cognato. Il ragazzo fu parco e disse solo: "Ciao, oggi è il compleanno di Carlo." Poi continuò con decisione: "Portami a Como, devo fare dei documenti per Carlo."
Vaga guidò come in un incubo e appena tornati, il ragazzo concluse: "Ho fatto tutto, io torno a Reggio. Ricordati di telefonare a Carlo per il suo compleanno.”
A questo punto Vaga si svegliò dal letargo buono in cui si era deliberatamente rifugiata e urlò: “Vai a cagare.”
Le telefonate seguenti furono di Cora e avevano del pittoresco: "Pensa, si sta depilando e vuole andare a letto con Carlo.”
Poi c’era stato l’intervallo delle vacanze.
Vaga e Bino prima di partire per il mare avevano fatto la solita visita ad un Cash and Carry e si erano portati via provviste per un intero esercito: oltre a pasta, salumi e carni si erano divertiti ad agguantare tutti i tipi di biscotti che si trovavano nel supermercato. Bino non aveva obiettato nulla perchè la sua norma fondamentale era: ”Qui si risparmia, in Liguria tutto è caro.”
Avevano lasciato Borgo con Teresa appresso e il figlio Lucio e vennero poi raggiunti nella loro casa di Finale dalla sorella di Vaga, Lina, e da sua figlia Donata, le quali avevano diviso la macchina con una gatta persiana incinta, una soriana ed un criceto. Più avanti sarebbero arrivati gli amici. Per l’occasione Lina s’era rifatta il guardaroba dalle scarpe al profumo e aveva preordinato per ogni giorno di vacanza tre mise diverse, secondo le ore e gli eventi. E cos“, per il viaggio, Donata, sua figlia, s’era trovata tra le braccia una grossa valigia della madre e, mentre il criceto rosicchiava i semi e faceva pip“ per l’emozione e i gatti miagolavano senza sosta, gli appendini con i vestiti da sera s’erano messi a battere sui vetri per accompagnare quello zoo in trasferta.

Marco aveva raggiunto i genitori al mare dieci giorni prima della partenza per l’America. Era accompagnato dagli zii e il suo aspetto, dai capelli all’abito, era da opera buffa.
Purtroppo Cora, dopo qualche giorno dal suo arrivo, s’era accorta, nell’indossare un bikini, che una strana ghiandola dura era cresciuta su un seno.
"Il medico non ha trovato una ciste a Cora, ma un tumore, le hanno asportato un pezzo di seno.”
Chi telefonava dall’ospedale era Marco che aveva seguito la zia a Reggio. Vaga provò allora doppia angoscia: sua cognata in un momento cos“ non s’era trovata accanto il marito, ma suo figlio, che stava facendo una parte non sua.
Dopo qualche giorno Marco finalmente part“ per l’America: Bino e Vaga lo accompagnarono a Savona dove lo attendeva un nutrito gruppo di ragazzi e di sacerdoti e, dopo dieci giorni e una telefonata intercontinentale, si recarono a prelevarlo all'areoporto di Nizza.
Era dimagrito e Vaga, vedendolo bardato con cinepresa e macchina fotografica lo associò ad un fotografo mitico, quello di “Blow up.” Prima di lasciare l'areoporto le hostess salutarono Marco ridendo: doveva aver dato del filo da torcere anche a loro; due preti, invece guardarono Vaga e Bino con curiosità e predissero che il loro figliolo non avrebbe certo preso i voti. Parevano comunque felici d’averlo riportato a casa sano e salvo.
"Duecento fotografie scattate e neanche un dollaro di ritorno" fu il bilancio di Vaga. Più avanti scopr“ che Marco si era tenuto una bella manciata di dollari e che era andato in una banca di Borgo a cambiarli in lirette.
Il ragazzo distribu“ qualche regaluccio e Vaga a bocca aperta disse: "E io?"
"Ah" disse il giovane e tirò fuori dalla sacca qualcosa, un oggetto strano, indefinibile.
"Tiè questo" buttò l“.
Vaga aveva guardato l’oggetto misterioso, l’aveva rigirato per ritrovarvi una qualche somiglianza con qualcosa di noto, ma non era riuscita a capire che fosse e non lo seppe mai perché Marco fu misterioso su questo punto e parlò di un mercato indiano in cui vendevano dei portafortuna.
“Sembra più un oggetto voodu” pensò con il gelo addosso, la donna.
Bino ebbe un cappello giovanile stile tiger.
Vaga, per dovere, le restava solo quello, chiese al figlio che incontri aveva fatto e che cosa lo aveva colpito. Sembrava il titolo di un tema che dava alle elementari ai suoi alunni. Ebbe come risposta: “Il gran canyon, gli indiani, il Papa."
"A questa lunga lista manca solo John Waine e il coyote" rispose Vaga.
Cora e Carlo erano ritornati a Finale e Vaga vide che Marco aveva scelto la parte del consolatore presso la zia, alla quale prestava i suoi maglioni.
Poichè la fine delle vacanze era sempre più prossima, il giovane decise di convocare la madre nella sua camera e di presentarle quanto con gli zii aveva deciso.
“Ebbene io me ne starò a Reggio” incominciò il giovane dopo aver detto a Vaga che s’accomodasse pure. Poi aveva continuato: ”Siccome Cora dice che con quel che è successo lei non può mantenermi, ebbene qualche ora lavorerò per accontentarla."
Le urla di Vaga riempirono la valletta degli orti e giunsero fino alla Rocca di Perti e un falco abbandonò il nido.
Nell’uscire dalla stanza del figlio, incontrò Cora che passava di l“ e che aveva sul volto una smorfia di evidente disapprovazione. Con fare gentile, gentile, tra l’untuoso e il pedagogico, questa disse: "Devi essere più cedevole con Marco, prendilo con le buone e ti dà tutto."
Questa volta Vaga fissò la luna piena e pensò al lupo mannaro e il giorno dopo fu sintetica e ordinò a Carlo: ”Di’ a tua moglie di mollare Marco.”
L’uomo dondolò la testa: ”E’ lui a non stargli su di dosso.”
Vaga ripetè la sua frase mentre il cognato lanciava in buca una pallina del bigliardino della spiaggia.

In quel giorno il mare era grosso, ma Vaga pensò di rischiare. Voleva andare lontano, nuotare e nuotare per liberarsi dai troppi pensieri: s’era pure presa della visionaria isterica dal marito. Nel pomeriggio, dopo un pasto a base di melone e qualche cipollina sott’aceto, dieta da cento calorie imposta dalla sorella Lina, e una partita di pinnacola sotto il pergolato del ristorante, Vaga si decise. Aveva veduto nuotare con perizia dei ragazzi che poi erano usciti e ora erano alle docce.
Entrò in acqua e ci mise un po’ prima di poter fare qualche bracciata perchè le onde a riva la rimandavano indietro. Il mare era suo, tutto suo, nessuno s’era più azzardato a lottare con le onde. Riusc“ a raggiungere con una spinta il colmo di un’onda portentosa, ma non s’accorse che un’altra ancora più imponente la incalzava e cos“ si trovò ad essere presa da questa e buttata sul fondo sassoso e sent“ sabbia e sassi avvolgerla, ma con dolcezza, e in quel momento non vide davanti tutta la sua vita, come le avevano detto succede in un momento di pericolo, ma pensò che aveva voluto fare un tentativo, mettersi alla prova, lasciarsi andare senza paura e toccare il fondo...ma non solo del mare, ma anche d’altro...: quella era solo una prova, un’anteprima...Quando riemerse fu, per la seconda volta, spinta sul fondo e allora si rese conto che era proprio lei, sola, ad esser l“ e alle prese con un drago spumoso. Quando riusc“ a metter fuori il viso dall’acqua si vide a pochi metri quattro mani poderose che le recavano aiuto. Rideva ora e s’attaccò a quelle mani un secondo prima che un’altra onda gigantesca la riprendesse di nuovo. Ringraziò i bagnini che non erano felici di quella trovata degna di Bay-Watch.
“Ancora un poco e ci sarebbe rimasta, ci hanno avvisato quei ragazzi, hanno detto che senz’altro non ce l’avrebbe fatta con quel mare grosso.”
Vaga corse a ringraziare i giovani e poi si diresse dalla sorella Lina e dalla nipotina che finalmente alzarono gli occhi su di lei per dire: ” Ma dov’eri?”
“A cercare acciughe sul fondo....stavo per annegare e voi neanche un plissè.”
“Sentivo la canzone di Battisti: ”Felicità” e intanto leggevo l’oroscopo” ammise Lina.
“E non ti ha detto che stavo per annegare?”

Bino finalmente svegliato ad ogni ora della notte da Vaga, la quale dichiarava che l’angoscia le s’era posata sul cuore come una nera falena, decise di impuntarsi: Marco sarebbe ritornato a casa e avrebbe trovato un lavoro. Non era però del tutto convinto, l'avrebbe lasciato ancora volentieri nelle mani del fratello, però mantenne la parola e parlò con lui, il quale trovò una soluzione da figli dei fiori: "Farò il barbone” disse.
Venne recuperato dopo qualche ora: aveva dei fili d’erba tra i capelli che lo facevano assomigliare al dio Pan.
Con questi antecedenti arrivò, grazie a Dio, la fine delle vacanze e, seppur col mugugno, Marco era tornato a casa. Urlò, prima di partire, a Cora: " Anche tu sei dalla loro parte."
Vaga e Bino eran finiti nella gabbia dei mostri.
La donna mandò un profondo sospiro: quella carrellata di quasi un anno le sembrava l’equivalente di un brutto sogno che aveva tutta l’intenzione di continuare in un altro luogo.

(continua...)
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