Racconti

leggere, sognare, scrivere... pensare

Cordova aveva una moschea
sentiva gli arabi sul collo e le trine di Siviglia sulle spalle...
perché la signora sapeva d'essere in cucina
ma non sapeva altro
e non parlava più
di Angela Cavelli

Fiabe e racconti

Cosa sarebbe la vita
senza storie...

Martedì 18 Ottobre, 2016
Un Soggetto è qualcuno che si muove perché ha un interesse, che lo mobilita, verso
qualcosa che ancora non ha e che potrebbe ricevere da un altro, perché dunque“gli va”, gli
“va bene” qualcosa.
Ricordo che, quando insegnavo alle Scuole Elementari, qualcuno chiese ai bambini che
materia preferissero, ottenendo questa risposta: ”L’intervallo”. Alla domanda poi sul perché
qualcuno volesse fare l’insegnante da grande, la risposta fu: “Perché le maestre alle 10 e 30
bevono il caffè che porta la bidella”. Mi sembrarono delle buone risposte: a loro qualcosa
andava, qualcosa in quella scuola andava loro bene, infatti venivano a scuola volentieri. Noi
insegnanti naturalmente incominciammo a chiederci come mai le nostre lezioni non fossero
così interessanti come l’intervallo.
Seppi anche di una bambina che aveva chiesto: ”Perché andare a scuola non è bello
come mangiare?” Anche questa domanda ci interpellò, perché in effetti l’apprendere
potrebbe diventare bello come il mangiare.

La domanda come iniziativa
Una domanda è una iniziativa.
Faccio un esempio. Se un allievo fa una domanda all’insegnante, questa è una libera
iniziativa di un soggetto che ha fatto prima un lavoro di pensiero e poi si è mosso per porre
una domanda; non sto parlando di qualcuno che butta lì una cosa solo per far passare il
tempo, ma di qualcuno che ci ha pensato prima di porla, ha cioè fatto un lavoro; ebbene, se
l’altro, l’insegnante, si mette in moto per rispondere a questa iniziativa, cioè fa un lavoro
ulteriore e in questo valorizza la domanda dell’allievo, ne nasce qualcosa che prima non c’era
e cioè un profitto per entrambi, frutto di lavoro su lavoro. Possiamo chiamare questo un
rapporto di partnership, in cui c’è arricchimento intellettuale sia per l’allievo che per
l’insegnante.
E poiché l’affezione non è slegata dal lavoro intellettuale, possiamo chiamare questo
lavoro su lavoro l’inizio di un rapporto.
Dapprima, quando insegnavo alle Scuole Elementari, non mi rendevo neppure conto
dei bambini che avevo davanti, non li vedevo neanche, tutta presa com’ero dal programma,
li trattavo come teste da riempire il più possibile, tanto da compromettere anche l’intervallo.
Non mi accorgevo che loro avevano un pensiero e il pensiero quando è normale è sempre
amoroso, cioè pronto a cogliere l’interesse dell’altro per farlo diventare proprio. Trascuravo
così l’occasione di passare loro la mia voglia, il mio investire su ciò che facevo. Quando mi
resi conto di essere io la prima a non essere portatrice di interesse per ciò che insegnavo, mi
tolsi dalla fissazione del “devo fare tanto”, “devo fare tutto io” e mi incontrai allora nella
loro collaborazione.
Proposi, per esempio, in una terza elementare un lavoro sulle regioni, dando delle
tracce, delle indicazioni su come classificare i dati: le caratteristiche del suolo, le coltivazioni,
le industrie e altro ancora. Questa ricerca piacque talmente, non per il metodo, ma per il fatto
che avessi fatto loro venir voglia di lavorare, lasciando loro spazio, che mi ritrovai tra le
mani un lavoro enciclopedico degno di una ricerca universitaria. In questo caso ero stata io il
Soggetto di una iniziativa che loro avevano raccolto e su cui avevano lavorato
abbondantemente. Raccolsi più di quanto avessi seminato. Mi ricordo di un’amica che portò
all’Università una ricerca storica fatta dai suoi allievi in quinta Elementare, ricevendone 10 e
lode. E’ un po’ per dire che l’Università incomincia dalle Elementari.
La mia iniziativa, che possiamo anche chiamare un “mi va” in andata, è stato l’anticipo
di ciò che avrei ricevuto: poteva anche andare male, ma anche questo andare male mi
sarebbe servito come correzione per una prossima volta, e il “mi va” finale è stata la buona
sorpresa per il lavoro concluso con l’aiuto di altri.
Il “mi va” è mobilitante, il “devo” no
L’interesse, il “mi va” è mobilitante, il “devo” non lo è.
A uno studente del penultimo anno di Liceo andava di seguire le orme di suo padre e
indirizzarsi verso gli studi di ingegneria civile, per poi lavorare nella sua ditta di costruzioni.
Aveva dunque ereditato l’interesse del padre, perchè non si ereditano solo i soldi
paterni, ma anche gli investimenti, gli interessi.
Studiava con profitto perché aveva l’idea di ciò che avrebbe potuto fare in futuro.
Succede qualcosa: lanciano lo Sputnik, il primo satellite artificiale e questo avvenimento,
frutto di un lavoro d’altri, gli fece venire una nuova idea. Incominciò a pensare che avrebbe
voluto lavorare nelle ricerche spaziali, un campo che si apriva in quel momento. Finiti gli
studi liceali, si iscrisse alla Facoltà di fisica. La sua strada ebbe inizio e divenne così un
astrofisico.
In questo caso lo “Sputnik” è l’esito di un lavoro che hanno fatto altri: il giovane uomo
si è trovato a esserne beneficiario e a potersi dire: “lo voglio anch’io”. Con questo “mi va”,
rispetto al lavorare alle ricerche spaziali, egli anticipa il beneficio che ne avrebbe ricevuto. E
prende l’iniziativa di seguire quella strada, già certo del beneficio.
Si può dire che questa persona ha ereditato l’interesse del padre, ma non vi si è fissato;
quando al suo orizzonte gli si presenta altro, investe su quello. Cosa ha fatto? Ha spostato
l’interesse ricevuto dal padre su altro, con libertà.
Se questa persona invece avesse detto: ”Devo seguire mio padre perché è mio padre, e
dunque devo, non perché mi piace, mi interessa, mi va, non avrebbe mai trovato la propria
strada.
Vi ho mostrato la differenza tra la posizione dura e pura del “Devo fare come mio
padre”, che è la strada dell’identificazione, e quella libera del “posso”, cioè dell’iniziativa, del
Soggetto che segue il proprio principio di piacere.
Soggetti e sottomessi
Se il Soggetto si muove verso qualcuno e verso qualcosa, perché ha il pensiero di
ottenere un di più, un profitto, di ricevere insomma qualcosa che prima non aveva, il
sottomesso si muove per comando, perché “deve”, perché è un compito a cui si è sottomesso,
perché lo vogliono i genitori, o perché tutti fanno così.
Diciamo che un po’ tutti a scuola abbiamo seguito questa strada, soprattutto alle
Superiori, non c’è di che scandalizzarsi: il nostro muoverci era un misto di dovere, di “tutti
fanno così” e il “mi va” era legato al fatto che in ogni caso is trattava poi di un’occasione per
incontrare gli amici, per chiacchierare nell’intervallo o giocare al pallone.
Ma fare le cose solo per dovere impedisce al pensiero di andare liberamente verso la
percezione del vantaggio che si può ottenere nel passare quelle ore a scuola, e poi
appesantisce perché non è soddisfacente per nessuno. Gli allievi solo sottomessi al dovere
devono essere continuamente richiamati a stare attenti, perché appunto il dovere non è
mobilitante e ciò risulta pesante anche per gli insegnanti. Sono lì loro stessi sottomessi al
dovere di insegnare e costretti a tenere la disciplina, di spingere perché gli allievi facciano …
il minimo.
In questi casi l’insegnante non è certo visto come un partner per un profitto.
La posizione libera dell’insegnante
Ma qual è la posizione dell’insegnante che può permettere a un allievo di riprendere il
pensiero del proprio vantaggio anche riguardo alle materie scolastiche perché arrivi al “mi
va?”
L’insegnante ha questa occasione quando ha già lui stesso una pista personale, gli va la
sua materia, e il suo aggiornarsi è legato non semplicemente al fatto di avere un ruolo, di far
parte di una istituzione, ma al suo interesse. Allora per lui ogni occasione è buona per
prendere dai libri, dai giornali, dai colleghi, dai dibattiti. Tanto che si potrebbe dire che il suo
lavoro lo fa per sé, ed è per questo che gli risulta soddisfacente, guadagnandoci, in più, uno
stipendio. Oltre a ciò, se uno è in questa posizione, non sarà lì a “pretendere” dagli allievi la
soddisfazione di quello che fa, ma eventualmente la soddisfazione dagli allievi gli arriverà
anch’essa come un di più, in modo sorprendente.
La posizione di chi “pretende” la soddisfazione dai propri allievi e dai propri figli è come
quella posizione di una mia amica che una volta mi disse: ”I miei figli non capiscono i sacrifici che io
ho fatto”. Io le risposi: “Ho sbagliato in tante cose, ma non ho mai preteso questo, perché toccava a
me fare le cose che desideravo fare, e se non le ho fatte è perché mi sono tirata indietro, per cui il mio
non fare lo imputo a me”.
Questa persona si era posta dei limiti quanto a ciò che avrebbe potuto fare, negli studi
e nel lavoro, restando poi preda dell’invidia e trattando male o ironicamente chi aveva
concluso più di lei. Era però una cattiveria spacciare dei limiti autoimposti per sacrifici fatti
per amore dei figli. Non so se la mia frase l’ha aiutata, comunque ora è direttrice di una
scuola, è riuscita dunque a raggiungere ciò che desiderava, ma che prima non si permetteva,
lasciando così in pace figli e altri.
L’insegnante che ha una pista personale è affascinante per gli allievi, perché qualcuno
che investe su ciò che fa può dare l’idea all’allievo che sulla realtà si può investire per un
profitto. In questo caso, l’insegnante che ha una propria pista personale, non è sottomessa al
dovere, ma è nella posizione libera del “mi va”.
L’inibizione
Ora farò un esempio di inibizione intellettuale, di arresto del pensiero: in tal caso non
ci si mette più a lavorare, non si investe più per ottenere un profitto. Non si riesce più a
imparare, a prendere. E’ esperienza comune notare come alcuni allievi pensino di non essere
capaci in qualche materia, per cui infatti dichiarano di “non essere portati”. E’ interessante
questa parola, che in realtà significa che non si è stati condotti da qualcuno ad avere gusto
per quella materia, che spesso è la matematica.
Un’amica mi raccontava che, quando lei era piccola, le avevano detto che non era fatta
per la matematica, allora lei l’aveva lasciata da parte, pensando: “non fa per me”. Questo
giudizio aveva limitato il campo del suo interesse e lei non aveva più lavorato in quel senso.
Non era arrivata fortunatamente a dire: “Non ne voglio più sapere, mettiamoci una pietra
sopra”, l’aveva semplicemente accantonata. Era stato messo un limite al suo pensiero, mentre
il pensiero è illimitato. Ma, nel suo caso, era bastato l’incontro con qualcuno che le ha detto:
”Perché no?”, per toglierla da questa sottomissione a un giudizio altrui che l’aveva limitata
nei suoi interessi. Questo intervento le aveva fatto addirittura guadagnare dei buoni voti in
questa materia, e un buon voto è un giudizio di profitto.
Perciò, nei giudizi che si danno agli allievi o ai figli, è meglio essere particolareggiati
nel puntualizzare un errore e dire: “Questa parte non l’hai studiata, riprendila”, piuttosto
che dire “Non sai studiare” o “Non fai mai niente”; è meglio precisare: ”Questa frase non sta
in piedi per questa ragione…”, piuttosto che dire: ”Tu sei negata per l’italiano”: certe
attribuzioni limitano il pensiero.
Ma voglio portare un altro esempio, presentando un brano tratto da un mio libro, in
cui racconto, sotto lo pseudonimo di “Vaga”, come sono intervenuta presso mio figlio per
fargli riprendere il gusto dello studio.
Scrivere libri è il mio modo di fare ordine nella mia vita, nei miei pensieri, di
riprendere le correzioni che altri mi hanno fatto e che mi hanno portato a rimettere in auge il
pensiero della soddisfazione.
In questi libri c’è la mia storia sotto forma di romanzo e in più punti parlo dei due figli
che mio marito e io abbiamo adottato quando loro avevano uno otto e l’altro nove anni.
Premetto che il figlio di cui qui parlo è il maggiore dei due. Quando è venuto da noi
aveva già una bocciatura alle spalle, che viveva come una sconfitta, o meglio come un
fallimento, e di cui non ha mai voluto parlare. Data la sua situazione familiare, non aveva
probabilmente ereditato il pensiero del profitto da trarre dal sapere e dalla cultura,
dell’utilità per lui dell’andare a scuola. Inoltre, lasciava sempre l’iniziativa di parlare al
fratello minore, che naturalmente faceva di tutto per imporre la sua idea.
Il brano che adesso vi leggerò ha a che fare con la situazione di impasse in cui alle
Superiori mio figlio si è ritrovato, mentre nei due anni delle Elementari e delle Medie le cose
erano andate avanti senza particolari problemi, perchè egli aveva accettato di far proprio il
nostro pensiero, che era poi quello dell’utilità del prendere, e dell’apprendere, dalla scuola.
Mio figlio dunque frequentava un Istituto Tecnico Superiore e, verso la fine di
quell’anno scolastico, doveva preparare tutto un programma di Italiano e di Storia, un lavoro
di mesi, immenso, perché gli mancavano molte interrogazioni.

“E Vaga se l’era preso vicino e aveva cominciato a spiegare la sintassi del periodo, richiedendo
poi al figlio degli esempi. Dall’altra parte ottenne dapprima un brontolio, seguito da una litania
ininterrotta di bestemmie elargite a piene mani e poi via via, qualche frase d’esempio esattamente
contraria alla logica. E Vaga, sempre più divertita, incominciò a sperare.
E ogni sera si metteva con foga a spiegar liriche, a rivoltar romanzi, a tracciar schemi, riassunti,
sintesi fino a che Lucio si decise a scrivere e a raccontare lui stesso, incuriosendosi anche a quelle
avventure inedite.
E così a Vaga venne l’idea che il figlio fosse un intellettuale in potenza perché sapeva collegare
pensieri filosofici e avvenimenti.
“Mi ha spiegato la teoria hegeliana e marxiana” disse spalancando gli occhi la professoressa di
italiano“ e in classe l’han guardato come non l’avessero mai visto e fuori gli han pagato da bere. L’ha
saputo anche la bidella! ..”
Che cosa ha reso possibile questo successo?
La prima persona che pensava che le difficoltà scolastiche fossero una questione
superabile ero io: sapevo che mio figlio aveva difficoltà non perché fosse nato così, ma
perché non riusciva a pensare di potercela fare, coprendo questo pensiero con un: ”Non me
ne frega niente”.
Se io avessi esordito con un: “Non capisci niente”, non avrei fatto altro che confermare
il suo pensiero negativo e non gli avrei dato nessuna possibilità, anzi avrei aggravato la sua
inibizione: questa frase sarebbe stata una vera e propria offesa.
Non avrei, del resto, potuto pronunciare questa frase, soprattutto perché la mia
posizione era un’altra: non era quella di una strategia guerresca, del corpo a corpo, del “Non
dire parolacce”, né quella del “Mettiamoci d’accordo” e neppure del “Poverino come t’ha
fatto male mamma”. La mia posizione derivava dalla certezza che si trattasse di inibizione
del pensiero, cioè di arresto, di impedimento del pensiero. Con il mio modo di fare gli ho
trasmesso la possibilità di un pensiero nuovo, l’idea che anche lui poteva prendere dalla
realtà della scuola e farsene qualcosa, perché l’inibizione non è l’ultima parola. Devo dire
che in effetti mio figlio riuscì a terminare la scuola, anche se, a tutt’oggi, non è ancora in una
situazione risolta, soddisfacente. Non sono bastati i momenti di successo, io ve ne ho
raccontato uno, che pure ci sono stati, a farlo rinunciare al pensiero di non essere capace.

Che cosa ho ricavato da questa esperienza?
1. C’era stata una disdetta del “mi va” rispetto alla scuola e dunque mio figlio aveva
deciso di non provarci più, pensandosi incapace.
Il Soggetto è il Soggetto del “mi va” sia dal lato della meta personale, sia dal lato del
successo in termini di voti, in questo caso, di profitto scolastico. Se ci sono troppi insuccessi,
e lui alle Superiori ne aveva avuti, e anche prima, il prender gusto a studiare viene disdetto.
A questo vanno, certo, aggiunti gli errori patogeni miei e di mio marito e la sua rinuncia al
proprio pensiero rispetto al fratello: tutto ciò aveva fatto sì che restasse solo con il dovere di
studiare rispetto al quale si era sentito incapace, e lì si era attestato.
Il “Non sono capace” non va mai preso come vera rappresentazione, è una falsa
rappresentazione; la vera rappresentazione è: ”Tu mi dici perché devo fare questa cosa, ma
io non vedo perché la devo fare. Mi resta solo che la devo fare e allora non ci riesco”.
Se il pensiero di base è “Non posso”, “Non sono capace a niente”, non c’è più un
“mettercisi”, un “mi va”: ci si impunta sul “devo studiare”, e a studiare non ci si riesce. Alla
fine si arriverà a dire: ”E’ troppo tardi”.
2. La crisi era scoppiata con il passaggio all’adolescenza, con la maturità sessuale; la
crisi può anche scatenarsi prima, ma solitamente - direi che è una costante anche in tanti altri
casi di insuccesso - con l’adolescenza, e con le nuove questioni provenienti dalla maturità
sessuale, viene a galla un pensiero su cui ci si era attestati prima. Mio figlio, dopo i
quattordici anni, aveva infatti abbandonato il pensiero che gli avevamo trasmesso di
potersene farsene qualcosa della scuola, e aveva ripristinato, quello di fallimento precedente.
Ma il pensiero attestato sul “Non sono capace”, coperto da una giustificazione, dal “Non me
ne frega niente”, è un pensiero malato.

3. La difficoltà scolastica divenne poi difficoltà sul lavoro che, alla prima occasione, alla
prima difficoltà. Abbandonava per cercarne un altro. E’ questo l’esito di una carriera
negativa.
Se non c’è ripresa del pensiero di poter profittare della realtà, si resta nella
sottomissione e non si passa alla soggettivazione, quella al lavoro, che è del Soggetto,
implicante un “mettercisi”.
Non è che mio figlio non avesse del tutto il gusto del lavoro o della scuola, ma non in
misura tale da scuotere l’idea di fondo di “non essere capace”: c’era un vuoto di pensiero
rispetto alla propria capacità. E’ riuscito, infatti, a lavorare fino a 27 anni sia pure con vari
cambiamenti, poi però è incominciata una parabola discendente, e l’unico modo che egli ha
trovato attualmente per riprendere è stato quello del tirare a campare, in attesa di un
miracolo. Non è ancora libero, non ha ancora il pensiero di concludere su ciò che vuol fare
nella vita. E’ come sospeso. Chi cresce nella vita è perché ha una prospettiva per il futuro e
lui non ha ancora questo pensiero.
La persona, in cui l’esperienza del “Mi va bene” non è stata troppo disdetta, recupera
facilmente, ma se l’esperienza del non andare è stata troppo forte, per cui è diventato
predominante il “Non mi va”, l’andar bene di qualcosa rimane solo un caso che non intacca
il presupposto ”Il mio destino è che mi vada male”. L’esperienza del successo è pur qualcosa,
ma non diventa determinante; basta una discontinuità, un incidente, una qualche non
riuscita e rispunta ancora il pensiero secondo cui il mio destino è quello di andare male. C’è
tuttavia una imputabilità in questo impuntarsi sull’ “ormai è troppo tardi”.
Nel caso di mio figlio, ora tocca davvero a lui di accettare di incontrare qualcuno
affidabile che possa dargli una mano e toglierlo dall’impasse. Ma l’iniziativa adesso è sua e
di nessun altro. E questo vale non solo per lui, ma anche per altri che sono in questa
condizione di inibizione.
Io preferisco pensare che mio figlio sia ancora nella situazione del figliol prodigo che
ha dissipato i suoi averi, i suoi talenti, ma che non sia ancora detta l’ultima parola, come la
parabola insegna.
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