Fiabe

le fiabe di Angela Cavelli
prendono spunto da quelle classiche

Come sono noiosi quando parlano di Te
e Ti rispettano solo a parole…
E Dio disse: "È ora di piantarla
di rifilare minestre divine".
Non aggiunse altro perché si addormentò.
di Angela Cavelli

Fiabe

leggi le fiabe

Venerdì 18 Giugno, 2010
C’era una volta un taglialegna, padre di sette figlioli, tutti maschi. La sua famiglia era così povera, ma così povera che doveva risparmiare su tutto. Era tale l’abitudine, che lui e sua moglie cercavano di risparmiare anche il fiato e la parola, ed eran così divenuti quasi sordi e quasi muti. E anche non vedenti: infatti vedevano una cosa sì e una no. Risparmiavano pure sul sole, solo qualche caldo raggio al mattino poteva entrare nella loro casa perché subito dopo, per paura che si consumasse, richiudevano le imposte. Per non dire della legna che veniva pesata prima di essere messa sul fuoco. Eppure il povero taglialegna lavorava da mane a sera.
L’ultimo dei sette figli era piccolo in modo incredibile: pareva proprio che i suoi genitori avessero cercato anche con lui di risparmiare... Appena nato, non era più alto di un pollice! Proprio per questo fu chiamato “Pollicino”. Come culla il piccolo ebbe un guscio di noce e, dopo qualche anno, come scivolo una buccia di cocomero e come altalena una scodellina per le bambole fissata a una trave con due fili di ragnatela! Aveva però gusti precisi: si addormentava al canto dei vignaioli e dei panettieri perché lo trovava più dolce e conciliante delle ninne nanne che finivano sempre col metterlo nelle mani di uomini neri o di fantesche selvagge.
Il suo maggiore divertimento era cacciare in bocca tutto ciò che trovava: dalle cicche del papà ai giornalini della mamma, sottratti questi alla raccolta differenziata dei rifiuti reali; la terra poi era la sua passione, spesso se ne riempiva la bocca e la trovava buona anche se meno dolce del cioccolato. Succhiava le gambe delle sedie, le porte dei mobili e leccava i vetri dopo essersi specchiato. Provava tutto perché tutto gli pareva degno di essere gustato, così poteva giudicare cosa gli andasse e cosa no. E così scoprì che la pappa del gatto di casa era più buona della sua, perché il gatto sapeva arrangiarsi e con i suoi vezzi e miagolii riusciva ad impietosire i vicini che gli concedevano ogni leccornia. Giocava con le pentole e non si scordava i coperchi, così da improvvisarsi suonatore di piatti e di pentolone.
Gli anni passarono e Pollicino incominciò con i fratelli ad aiutare il papà a fare legna.
Venne un’annata terribile, peggiore, se così si può dire, di tutte le altre.
La miseria fu talmente spaventosa che quei poveri genitori non sapevano come fare a sfamare i loro sette figlioli.
Pollicino, che era un bambino che osservava molto e che spesso interveniva nei discorsi dei suoi genitori con domande che valevano una fortuna, quella volta intervenne così: ”Perché il mio amico Racconigi, figlio di un taglialegna, è ricco e noi no?“
“Perché noi siamo destinati ad essere poveri!” fu la risposta dei suoi.
“Oh, bella, da chi?”
“Che domande fai Pollicino? Il destino è già scritto e noi non possiamo farci niente!”
“Dove sta scritto? Ditemelo che vado a cancellarlo con la scolorina!”
“Ma son domande da farsi? Il nostro destino è scritto nel cielo su una stella, se la stella è buona noi nasciamo ricchi, se la stella è cattiva noi nasciamo poveri e così rimarremo.”
“Ma non si scrive sulle stelle” rispose tutto rosso e impermalito il bambino.
“Non son discorsi che un bravo bambino fa, un bravo bambino accetta il suo destino e basta. Forse che i fiori che si volgono verso il sole si chiedono perché questo li ami? Ora vai a letto che sei stanco! Risparmia il fiato!” concluse la madre.
“Mamma, hai bevuto lo spirito? I girasoli non fanno domande e il sole non ha un cuore e poi io non sono stanco e non voglio essere un bravo bambino... e non riesco a capire che stiamo a fare noi se tutto è già scritto e noi non possiamo cambiare niente...”
“Queste cose non si dicono e poi tu sei troppo piccolo per capire..”
Dopo queste battute, Pollicino veniva preso e portato a forza nella sua camera e lui lì restava a pensare come raggirare quel destino che gli pareva davvero troppo ingombrante.
Una volta a pranzo, si fa per dire, perchè nove piselli secchi e un filo d’erba liofilizzata non potevano chiamarsi “pranzo” e neppur “colazione” né “spuntino”, ma solo “modo elegante per morir di fame”, il bambino, dopo averci pensato, disse: “Io da grande costruirò un palazzo alto come una montagna, una carrozza con il volante, una scatola per parlare a distanza e una penna con inchiostro incorporato e saranno delle novità per tutti, come vedete non tutto è già fatto...”
Al che il padre, stupito per l’arguzia del suo piccolo, chinò la testa sconsolato, mentre la madre recitò i numeri della Cabala e poi pregò il Dio dei suoi pensieri che era un tipo arcigno con un occhio solo e che abitava in una casa-mausoleo sul cui frontone stava scritto: ”Dio vede e non provvede.”
La volta poi che Pollicino chiese cautamente con la sua bella vocina: ”Come nascono i bambini?” il papà e la mamma si andarono a nascondere nella legnaia e non ne uscivano più. Si stavano consultando per poter rispondere a quella domanda. Dopo vari litigi, lui diceva che la risposta giusta era che i bambini nascevano tra la lattuga nelle notti di plenilunio, quando i cani ululano e le civette civettano, mentre lei, più gentile, riteneva che la risposta da dare fosse che i bambini nascono d’inverno sotto il cavolo cappuccio e d’estate nell’insalata riccia.
Alla fine, tutti sudati, uscirono dalla legnaia e risposero a Pollicino che i bambini nascono tra le belle di notte, quando, nello stesso momento, il gatto miagola, il leone ruggisce, la ragna fa la tela e i canarini seppelliscono il nonno morto.
Pollicino davanti a una tale confusione rispose: ”Ma allora voi che ci state a fare?”
Una sera che i bambini erano stati messi a dormire per terra perché non consumassero materassi e lenzuola, il taglialegna, che se ne stava vicino al focherello, disse alla moglie: ”Non possiamo più sfamare, lo vedi anche tu, i nostri figli; prima potevamo dar loro pane e angoscia, ora solo quella senza pane! Di questi tempi è bene non trafficare troppo e fare il meno possibile perchè non ci si può fidare di nessuno. Lo vedi anche tu che ciò che faccio non è mai ripagato, di gente onesta ce n’è rimasta poca!”
“Già, è vero, che vuoi fare, allora?” disse ansiosa la moglie stringendosi nel suo consunto scialletto.
“Avrei pensato di portarli domani nel bosco a far legna. Poi... ho deciso di abbandonarli là, così impareranno a procurarsi il cibo e altri li potranno aiutare... ”
“Abbandonarli? Tu scherzi! Non si abbandonano i figli così! Non è modo” esclamò la moglie che da ragazza era cresciuta in un collegio grazie a un legato del Vescovo al quale stavano a cuore le sorti delle fanciulle povere. Alla donna cadde il giornalino: “Poveri fuori, ma belli dentro”, poi ella, presa dalla curiosità, aggiunse:
“E come farai?”
“Non sarà difficile: mentre essi saranno intenti a legar fascine, noi scapperemo senza farci vedere!”
“Come puoi pensare una cosa simile?” gridò alfine disperata la donna. “Come puoi esser così crudele con i tuoi figli?”
Il marito insistette ancora, e tanto fece e tanto disse che la povera donna finì coll’acconsentire, dicendo con aria angelica e rassegnata: “Se così vuole il destino!”
Pollicino, che non si era mai rassegnato a dormire a comando, soprattutto sul pavimento duro, quando aveva udito, dalla sua camera, il parlottare del padre e della madre, e questo era raro perché nella sua casa si risparmiava anche sulle parole, aveva capito che si trattava di cose gravi; allora senza far rumore era scivolato accanto al focolare da dove aveva potuto ascoltare le decisioni dei genitori senza essere visto.
Dopo aver udito quei terribili discorsi si era un poco allarmato, quando poi gli era arrivata alle orecchie la parola “destino”, mormorata con languore spirituale dalla madre, aveva capito che il pericolo era reale ed era tornato nel suo cantuccio accanto ai fratelli perché, prima di prender sonno, aveva bisogno di meditare.
Pensò dapprima di andare a lavorare in miniera, sapeva che l’avrebbero accolto a braccia aperte, perché, piccolo com’era, poteva entrare nelle gallerie senza problemi, ma poi costernato pensò che i suoi genitori avrebbero passato dei guai perché una nuova legge impediva il lavoro minorile, ma non di morire di fame.

(continua...)
Sabato 2 Aprile, 2011
[...]

Pensò allora che, poichè a mali estremi estremi rimedi, avrebbe potuto andare a rubare nelle vigne, nei frutteti per poter sfamare i suoi; gli sembrava una soluzione giusta-giusta, vista la situazione, ma i suoi genitori sarebbero morti di crepacuore perchè ci tenevano ad essere considerati dei bravi genitori. Inoltre il grande Competente, Ministro della Psiche del Regno, si sarebbe preso cura di lui e dei suoi fratelli e li avrebbe mandati ai corsi di coccoloterapia e di acquerello emozionale e, per ultimo, in terapia intensiva così che non avrebbero più potuto ragionare con la loro testa, che era poi l’unica ricchezza rimasta loro. Che fare, dunque?. Siccome sapeva che aveva bisogno di tempo per trovare una soluzione e poiché il tempo stringeva, avrebbe messo in atto una sua strategia.
La mattina dopo, all’alba, tirò cautamente il paletto della porta e si trovò fuori. Sulla riva di una ruscello che scorreva dietro la casa c’erano tanti sassolini bianchi a forma di cuore. Pollicino se ne riempì le tasche e se ne andò in camera senza far rumore.
A giorno fatto, tutta la famiglia partì per il bosco. I sette bambini seguirono il padre e la madre nella foresta. Il taglialegna si mise ad abbattere ceppi e i figlioli cominciarono a raccogliere rami e a legar fascine. Per un poco lavorarono insieme , poi padre e madre si scostarono pian piano dai piccini e si allontanarono, guardando in aria, come se rincorressero le nuvole.
Quando i bambini si accorsero di essere rimasti soli, si misero a piangere e a lamentarsi.
- La mamma e il papà si sono persi! - gridò uno.
- Io ho paura del canarino mannaro! - fece eco un altro.
- E io degli ecologisti senza frontiere - - Ecco, adesso ci manderanno dritto al corso di biodanza per bambini senza speranza! - - E’ qua che ti sbagli: finiremo al Villaggio del Pensiero Positivo, dove tutto è riso, anche il mal di pancia!- Pollicino non si scompose: sotto l’apparenza di pasticcino mignon batteva in lui un cuore aperto e generoso e il suo pensiero riusciva ad elaborare delle soluzioni, così da non lasciarsi vincere dalla paura dell’ignoto. Era sicuro di trovare la strada di casa: quella mattina aveva lasciato cadere, di nascosto, lungo il sentiero, i sassolini bianchi che aveva messo nelle tasche prima di andare nel bosco. “Non abbiate paura! Non fate i bambini!” disse ai fratelli. “Invece di piangere aiutatemi a ritrovare la strada; papà e mamma sono corti di pensiero, non sanno far altro che trovare soluzioni finali, ma io so come riportarvi a casa. Seguitemi.” Le creature s’attaccarono al fratellino che aveva fatto balenare loro una speranza di salvezza e lo seguirono per la stessa strada che avevano percorso al mattino, e che i sassolini bianchi indicavano chiaramente. Pollicino condusse così a casa i fratelli. A dire il vero lungo la strada il bambino aveva avuto dei ripensamenti: avrebbe voluto infilarsi nella casa del suo amico Piercappone, già il nome del compagno gli faceva venire l’acquolina frizzante in gola, e farsi adottare dal suo papà per cui nutriva una grande simpatia. Gli piaceva quell’uomo che aveva comprato a suo figlio un carretto e un cavallino e che invitava lui e i suoi fratelli a giocare e a mangiare focacce farcite. Sapeva tirare di scherma, giocare a bridge e a Monopoli e vinceva sempre. Invitava poi in casa sua teatranti, toreri, bandilleros e trobadores, pirati e capitani di ventura che raccontavano storie e avventure sulle quali Pollicino poteva navigare col pensiero. La loro casa poi era ben custodita dai pastori tedeschi Rex e Rin-tin-tin. C’eran poi dei fatti in quella famiglia che lo ingolosivano molto: Piercappone poteva addirittura infilarsi nel grande lettone di piume dei suoi genitori, bere due gocce di caffè d’orzo la domenica e indossare il giovedì gli stivali da caccia del papà e entrare così nello stagno a caccia di ranocchie e girini. La mamma del suo amico, poi, sembrava uscita da un libro di fiabe tanto era bionda e sinuosa e vestiva Rocco Barocco durante le cerimonie religiose, mentre tutti i giorni indossava Armani. Pollicino sapeva però che il papà del suo compagno avrebbe magari potuto adottare un figlio, ma sette eran davvero troppi! E lui non se la sentiva di lasciar soli i fratelli, e anche i genitori, sprovveduti com’erano!. Non era ancora tempo, ma non per questo abbandonò la speranza di trovare qualcosa di buono per sé e per i suoi: qualche sportello aperto ci doveva pur essere! Appena i piccini furono giunti a casa non ebbero il coraggio di entrare, ma appoggiarono l’orecchio alla porta per ascoltare ciò che dicevano tra loro padre e madre. Dopo aver lasciato i figli soli nel bosco, i genitori erano tornati alla loro catapecchia. Proprio nel momento in cui essi avevano varcato la soglia era accaduta una cosa sorprendente e inaspettata: il signore del villaggio aveva mandato al taglialegna dieci scudi per saldare un grosso debito, ma non solo, aveva spedito il cuoco Marchesini con ogni ben di Dio: antipasti caldi e freddi, tagliolini all’aragosta, tacchina al forno, filetto alla Bismark e torta meringhe e panna. I due poveri derelitti davanti a quei beni non sapevano se ridere o piangere, ma poi, abituati com’erano, scelsero anche in quell’occasione di piangere calde lacrime, così avrebbero lavato il viso senza consumare l’acqua. Pur pensando che quella ricchezza era arrivava troppo tardi per i loro figli, vennero presi da una tale fame che si buttarono sui cibi succulenti fino a che non si furono ben rimpinzati. Dopo di che la moglie del taglialegna aveva incominciato a lagnarsi: “Ahimè dove saranno in questo momento i nostri bambini? Chissà che bella accoglienza avrebbero fatto a tutti questi ricchi cibi rimasti!” E poiché non le pareva di essersi disperata abbastanza, urlò di nuovo: “Dove saranno i miei poveri bambini, mentre noi godiamo di tutto ciò. Dove saranno?” “Mamma, babbo, siamo qui, siamo qui!” La mamma corse subito ad aprire e urlò: ”Ho sentito la voce del sangue.” “Mamma, il plasma non parla, noi sì” ebbe a rispondere Pollicino per riportare la mamma dai romanzi rosa all’attualità. La donna fece finta di non capire e sussurrò un: ”Come sono felice di rivedervi” poi, dopo essersi allontanata dai suoi piccoli, solo un attimo, riprese: “Sarete stanchi e magari avete anche fame!” Presa infine da uno slancio di materno amore, così aveva visto fare in uno spettacolo del Circo, abbracciò i suoi piccoli, ma poiché erano troppi, ne abbracciò uno sì e uno no. I bambini si misero a tavola e fecero onore a tre fili di fettuccine, al grasso del filetto e alle briciole di meringata e poi succhiarono le ossa della tacchina. La madre intanto li guardava e beatamente sorrideva. Purtroppo quella felicità non ebbe lunga durata: durò esattamente finchè vi furono scudi da spendere. E ancora una volta i poveri genitori si videro costretti a riprendere l’orribile decisione di abbandonare i figli nel bosco. Pollicino intese i loro discorsi e si disse: ”Ancora! I miei genitori non sono ancora arrivati a pensare che è possibile cavarsi d’impaccio. Stanno sempre ad aspettare che dal cielo piova la manna, che dal Re arrivi la pagnotta, dall’Associazione Arti e Mestieri lo stipendio e dal gioco della Super-Lippa gli scudi, ma non fanno nulla di diverso da ciò che han sempre fatto! Se solo uscissero in cerca di selvaggina e portassero anche noi avrebbero risolto il loro e nostro problema!” Pollicino, allora, un poco annoiato per quella storia che si ripeteva da troppo tempo si disse: ”Uffa, mi toccherà di nuovo far provvista di sassi!” Quando alle prime luci dell’alba il bambino si alzò e fece per uscire, trovò la porta ben chiusa: i genitori per paura dei ladri che avrebbero potuto rubare i loro pidocchi s’eran messi a dar giri di serratura. Sconsolato, attese la mattina, e, quando la mamma andò a rubare all’uccellino che cantava felice sulla quercia il suo pezzo di pane per distribuirlo ai figli, ebbe un’idea: rinunciò a mangiare la sua parte e se la mise in tasca. Se ne sarebbe servito nel bosco: al posto dei sassolini, avrebbe lasciato cadere delle briciole di pane sul sentiero. Padre e madre condussero i figli nel bosco e come l’altra volta cominciarono a lavorare, poi si scostarono pian piano dai figlioli e si allontanarono rapidamente, questa volta facendo finta di acchiappare delle libellule in amore. Pollicino se la rideva perché sapeva che, malgrado i genitori, sarebbe tornato a casa con i fratelli un’altra volta. A dire il vero era sempre più convinto che sarebbe stato meglio girare in lungo e in largo a cercare fortuna, magari emigrare in America o in Canada, per vedere come andava il mondo, ma soprattutto desiderava che i suoi genitori si dessero una mossa. Ma, ahimè, quando cominciò a cercare le briciole rimase di stucco: non ne trovò nemmeno una.

(continua...)
Sabato 2 Aprile, 2011
[...]

L’uccellino derubato aveva chiamato a raccolta i suoi amici e si era ripreso ciò che era suo. Pollicino allora si disse pensando ai suoi genitori: ”Mi dispiace per voi, questa volta non possiamo tornare, senza di noi starete senz’altro peggio e oltre a morir di fame, morirete di noia e senza speranza. Sono certo che da qualsiasi altra parte si starà meglio. Basta uscir di casa che si può trovare qualcosa di nuovo e di buono. A furia di dirci di non fidarci di nessuno m’ero quasi convinto che l’unico luogo ospitale, si fa per dire, era la nostra casa, ma io sono certo che qualcosa di meglio troverò! fosse anche una sola pagnotta e un cestello di patatine fritte.” I fratellini ancora una volta cercarono con ogni mezzo la strada giusta per tornare a casa, ma più cercavano, più si addentravano nella foresta. Venne la notte e cadde una pioggia torrenziale che li bagnò fino alle ossa. Pollicino di nuovo ebbe un’idea: si arrampicò su un albero, per vedere se poteva scoprire qualcosa. Girando il capo da tutte le parti vide un lumicino lontano lontano, al di là della foresta. Il piccolo scese dall’albero e disse risoluto ai fratelli: ”Andiamo da quella parte” e si avviò in testa a tutti. Cammina, cammina, i sette bambini arrivarono finalmente alla casa dove brillava appunto quel lume e bussarono. Pollicino cercò di giudicare dall’aspetto della dimora che gente vi abitasse. Vedendo la grossa lampada di Murano che pendeva all’entrata, le tendine di pizzo alle finestre e i gerani penduli rosa, potè concludere che almeno lì c’era una donna che si curava dei fiori e degli arredi di casa e che dunque c’era da sperare; di certo qualcosa di buono quella gente doveva avere perché amava la ricchezza. Una donna grande e grossa, una gigantessa dall’aspetto bonario, venne ad aprire: “Cosa volete? Badate che non ho bisogno di spille da balia senza punta, fazzoletti di carta stropicciata, penne che non scrivono, cerotti che non attaccano e neppure ho bisogno che m’insaponiate gli occhiali, però se non è per questo... che ci fate qui?” I bambini sorrisero e si spintonarono a vicenda, poi con tenerezza si attaccarono alle gonne della donna, mentre Pollicino disse per tutti: “Non siamo ambulanti... ci siamo perduti nella foresta e cerchiamo per carità un letto per questa notte e un pezzo di pane.” “Ahimè poveri piccini dove siete capitati! Sapete che questa è la casa di un Orco che mangia i bambini tenerelli, pensate che li preferisce alla mousse di castagne!” “Signora, non faccia l’esagerata! Con noi vostro marito avrebbe ben poco da rosicchiare e d’altra parte ancora un poco e moriremmo comunque di polmonite! Sono certo che troverete il modo di non farci scoprire! E poi sono sicuro che il signor Orco non è poi così cattivo come dite, visto che ha come sposa una gentildonna come voi!” La moglie dell’Orco che si era sempre sentita offesa dai vicini che le dicevano: ”Orco il padre, orchessa la madre, orchine le tue bambine!” si eresse in tutta la sua grandezza e si riprese la sua dignità e intonò lì per lì una celebre romanza d’amore e di gloria. Sentendosi rinata riandò a quando giovane sposa pensava di aver sposato l’uomo più forte del mondo e allora allargò le braccia e accolse i piccoli e li invitò a scaldarsi davanti a un enorme camino in cui bruciava legna odorosa e in gran quantità! “Non vi fate mancare nulla in questa casa!” continuò Pollicino vedendo la grandezza della ghiacciaia e i salami appesi alle travi. “Mio marito sarà quel che sarà, ma pensa alla sua famiglia! Lavora e guadagna molto. Ha una ditta di import-export di carne. Traffica anche con l’America... Ecco per voi delle crepes ripiene di cioccolato...” “Lei sì che se ne intende!” gongolò Pollicino e poi aggiunse: ”Sono felice per lei... ha un marito ricco d’iniziativa” e buttò gli occhi sullo spiedo su cui stava cuocendo lentamente un intero montone: era la piccola cena che ella preparava al suo sposo. La donna si eccitò talmente che fece un giro di valzer intorno al tavolo, poi passò alla polka e infine si buttò sul passo double che al marito piaceva tanto perché gli ricordava la corrida, il sangue e le frattaglie taurine. Mentre i piccini si scaldavano e si asciugavano, tre colpi furono battuti alla porta: era l’Orco che tornava a casa. “Poveri noi!” pensò la donna spaventata, interrompendo una battuta di tacco. Poi, rammentandosi che era una gentildonna che sapeva il fatto suo, una regina della casa e che ora aveva ospiti e doveva farli rispettare, si ricompose. Ci teneva ad essere una signora!” Non perse tempo e disse ai bambini: “Ficcatevi sotto la credenza” poi corse ad aprire al marito. “Buonasera signor marito, bentornato!” “E’ pronta la cena?” rispose l’omone ingrugnito e intanto girava per casa perché qualcosa pizzicava il suo olfatto finissimo. “Non mi salutate neppure! Che modi sono questi! Avete forse imparato l’educazione al Mau-Mau Costanzo zuf?” “Taci, donna, sento odor di carne fresca dai quattro anni in su... carne che gira nei nidi e negli asili...” “Ma è il montone sul girarrosto, che dici mai! E poi se mi tratti così, le nostre figlie come possono cogliere le gioie del matrimonio?” “Chi ti ha montato la testa? Non certo questo montone, qui c’è aria di teneri salsiccini... hai aperto la porta a qualcuno?” L’Orco di nuovo fiutò l’aria come rapito e il suo fiutare lo condusse verso la credenza stile “arte povera”. Senza tanti complimenti tirò fuori ad uno ad uno i sette bambini, prendendoli per il colletto. “Ecco i miei bocconcini, devo giusto offrire un pranzo a tre Orchi miei amici, che verranno presto a farmi visita. Saranno spiedini appetitosi, specie se li preparerai con una salsa al peperoncino, come ben sai fare tu!” Mentre la buona donna si gongolava per il complimento del marito, i bambini tremavano come foglie di salice. Quando poi videro che l’Orco andava a prendere un coltellaccio da cucina lungo sei spanne divennero verde mela per la paura. “Ma che volete fare a quest’ora?” gli gridò la moglie, riavutasi dal complimento “non avete tempo domani? Avete ancora tanta carne per i vostri amici: un vitello, due montoni, otto maiali, e poi quei vostri amici non ricambiano mai gli inviti e vi portano in dono solo carciofi duri e rinsecchiti! Non sono dei veri signori, non conoscono obbligazioni!” “Non dir male dei miei amici, gli Orchi van rispettati, però hai ragione, aspetterò. Da’ da mangiare in abbondanza a questi monelli, e portali a letto!” La buona donna tirò un sospirone di sollievo e servì la cena ai bambini ed essi, seppur spaventati, ingollarono ogni ben di Dio. L’Orco da parte sua fece festa all’intero montone e per dimenticare che i suoi denti consumati avrebbero preferito carne tenera e profumata di latte incominciò a bere. Alla fine dopo aver bevuto sette barili di vino si addormentò placato e felice come un angioletto. La moglie dovette usare una grossa leva per portarlo a letto. Quell’Orco aveva sette figlie che erano ancora piccine e che si muovevano solo a comando o al suono di marcette militari. Le bambine, per ordine dell’Orco, che le voleva ben educate, eran state mandate a balia da una strega che avrebbe dovuto insegnare loro come comportarsi nella vita. La strega aveva tutta una teoria su come si crescono i bambini e già quando le piccole erano in fasce aveva iniziato a dire loro come dovevano piangere, come ridere, se a denti stretti o a ganasce aperte, e, più avanti, come camminare, cioè se andare all’indietro o in avanti, se mettere prima un piede o l’altro, se strisciare o rotolare. E se le bambine si ribellavano, le legava con una corda rosa a pois verdi e poi con voce mansueta e dolce le incitava ad obbedire. Spesso le svegliava nel cuore della notte e impartiva loro lezioni di sonno: le piccole dovevano dormire per cinque minuti su un lato, per sette minuti sulla pancia, per dieci minuti sull’altro lato e per un quarto d’ora sulla schiena e poi dovevano ricominciare, perché esse dovevano essere regolate anche nel sonno. Per il cibo poi la strega s’era data molto da fare: le orchette dovevano mangiare quando l’orologio batteva le ore e non prima o dopo. E così, se strillavano per la fame, la strega non dava loro nulla, ma al batter dell’ora le rimpinzava come polli. E queste s’eran così regolate da assomigliare davvero ad un orologio svizzero, tanto che gli amici per salutarle gridavano: ”Cu-cu”. Quella sera la madre le aveva fatte coricare presto ed eran tutte in un gran lettone, ognuna con una piccola corona d’oro sulla testa. Ogni tanto, secondo i comandi imparati dalla strega, queste si giravano e rigiravano ed era come veder muovere delle bambole meccaniche. Anche i sette fratellini finirono in quel lettone, ma con dei berretti di lana azzurra che avevano ricamata la scritta: ”Siamo tutti fratelli.”

(continua...)
Sabato 2 Aprile, 2011
[...]

“Giochiamo alla rivoluzione su questo bel lettone” propose uno, e un altro aggiunse: ”Così potremo difenderci domani dal Terrore.” I bambini incominciarono a lottare per giocare alla rivoluzione e svegliarono così le bambine che, vedendo lottare gli intrusi a quell’ora della notte rimasero sbalordite e ammirate: loro avevano il permesso di giocare solo quando le oche facevano la pipì. Pollicino a quel punto ebbe un’idea che avrebbe potuto salvare la vita a lui e ai suoi fratelli: “Belle bambine, sono certo che voi non riuscirete a toglierci il cappello.” “E’ qui che ti sbagli” urlò la prima a cui fecero eco tutte le altre. In men che non si dica la voglia di averla vinta delle bambine fu tale che in due secondi s’eran già prese i cappelli dei fratellini. E dopo averli indossati, ormai liberate dall’obbligo di dormire, tutte soddisfatte si addormentarono felici. Le loro coroncine eran rotolate per la camera e Pollicino consigliò i fratelli di appropriarsene e con quelle di cingersi con vezzo regale. Nel cuore della notte, mentre i lupi ululavano, i cervi s’incornavano e le rane gracidavano, l’Orco balzò dal letto; era in preda alla fissa di essere un vero Orco e desiderava dimostrarlo. Si armò di un coltello a sega e salì barcollando nella camera dei bambini. Al buio, a tentoni, si avvicinò al lettone. Pollicino, che batteva i denti per la paura, sentì la manona dell’Orco sfiorargli la testa coronata, poi udì un’esclamazione soffocata: ”Povero me, stavo per sgozzare le mie figliole, i miei gioielli.” Il gorillone tastò di nuovo e sentì i berretti di lana ruvida e sghignazzò: ”Ecco qui i monelli, il mio coltello è così affilato che vi taglierà di netto la vostra gola, così che domani, un poco frolliti, sarete pronti per essere arrostiti teneramente con salvia e rosmarino.” E senza esitare tagliò sette, tenerissime gole; mentre il lettone già s’arrossava per il sangue che colava da sette piccole gole, l’Orco ritornò soddisfatto nella sua camera. Appena Pollicino sentì l’omone russare di nuovo, svegliò i suoi fratelli raccontò loro l’accaduto e disse loro di seguirlo. I piccoli obbedirono tremanti, raggelati dall’odore dolciastro del sangue delle loro piccole compagne e nel più profondo silenzio fuggirono da quella casa di morte e si inoltrarono nella foresta. Corsero e corsero e corsero talmente senza neanche sapere da che parte si dirigevano.L’Orco quella mattina s’era svegliato di buon umore. Andò ad annaffiare le sue piante carnivore che lui curava con amore e con le quali omaggiava le signore Orche, mogli dei suoi amici. Salì le scale con trepidazione e con rosmarino e salvia in mano perché voleva arrotolare le sue vittime così che la moglie potesse cucinarle per tempo. Quando entrò, non capì subito che fosse successo, ma qualcosa al suo occhio torvo, ma vigile, non quadrava. C’erano delle coroncine per terra, come mai? e così si avvicinò incredulo al lettone rosso di sangue fanciullo. E vide le sue piccole dolci bambine con la gola squarciata, gli occhi vitrei e un pallore mortale coprire i loro volti. E tutte eran girate sul fianco destro! “Come eran brave e precise, come un orologio e ora non ci sono più. No, orrore, orrore, Dio è ingiusto, non si uccidono i figli, solo gli altri, ma i figli son pezzi e core, anzi d’orologio” pianse l’ultimo degli uomini di Neanderthal. Cieco di rabbia e di dolore raggiunse l’Orchessa che, ancora assonnata e con un sorriso beato sul volto perché in sogno le era apparso il suo omone che le regalava sette piccoli crisantemi e lei s’era tutta inorgoglita, gli sussurrò, buttando uno sguardo rubato alla triglia: ”Che hai tanto da urlare, mio bel cavaliere; anche un Orco può rendere felice una donna!” “Sarò felice solo quando acchiapperò quei maledetti, dammi gli stivali delle sette leghe che voglio inseguirli per terra, per mare, per cielo.“ “Saran fuggiti e che sarà mai!” disse la donna ancora sognante consegnando i magici stivali al marito. L’Orco calzò quegli stivaloni e si mise in cammino. Correva a destra, a sinistra con grande rapidità, attraversava montagne con un solo passo e fiumi con un saltello, tanto che in un batter d’occhio s’era già messo sul sentiero che i bambini percorrevano e che dopo cento passi li avrebbe riportati a casa. I fratellini lo videro avvicinarsi e tutta la vallata fu scossa da un rombo simile a quello del tuono, perché dove passava l’Orco sradicava alberi e travolgeva ogni cosa. Pollicino, che tanto osservava, s’accorse di una caverna e consigliò ai fratelli di nascondervisi. Lui si fermò sull’ingresso per tenere d’occhio l’Orco. Questi, malgrado i magici stivali delle sette leghe, si ritrovò stanco e desideroso di riposo e si sedette tra i fiori, proprio vicino al luogo dove erano nascosti i fratellini. “Filate a casa mentre l’Orco dorme, io rimarrò. Non state in pensiero per me. Me la caverò e bene!” I sei fratellini arrivarono a casa e papà e mamma li accolsero a braccia aperte. “Dov’è Pollicino?” urlò la madre disperata, lasciando cadere dalle sue mani un romanzo intitolato: “Il destino una volta sì e una no si può cambiare.“ “E’ rimasto con l’Orco” risposero i bambini. “Poveri noi disgraziati, povero il nostro figliolino che ci faceva tante domande che ci aiutavano a pensare!” aggiunse la madre, mostrando occhi cadenti da madonnina infilzata. Essi certo non immaginavano che stesse facendo Pollicino. Il bambino, vedendo l’Orco dormire così della grossa, tanto che il suo russare e soffiare facevano volteggiare vorticosamente foglie, fiori, ricci di castagne, rami e funghetti e alzavano un tale polverone che pareva d’essere al centro di un ciclone, decise di levargli gli stivali delle sette leghe. Mentre se li infilava pensava che sarebbero stati troppo grossi per lui che aveva il diciannove di piede, ma gli stivali invece gli calzarono a pennello perché avevano il potere di adattarsi a tutti i piedi. Pollicino attuò così il progetto che gli era balenato improvvisamente. Ritornò in un battibaleno a casa dell’Orco e piombò nella dimora proprio nel momento in cui l’Orchessa stava preparando la colazione, e, felice, cantava l’Aida ancora ignara di quanto era accaduto alla sua prole. “Vostro marito è in pericolo. Dei ladri l’hanno aggredito e sequestrato: voglion tagliargli prima l’orecchio, poi l’appendice e infine la gola e allora lui mi ha ordinato di calzare gli stivali delle sette leghe per far presto e venir qua a prendere tutto l’oro, l’argento, i talleri, i BOT, i CCT, le azioni per pagare i briganti e salvar la sua pelle e la sua appendice a cui tiene molto. Non perdiamo tempo, ogni minuto è prezioso, i sequestratori possono arrabbiarsi e dar mano a forbici, mazze e seghe!.” L’Orchessa prese tutti i suoi beni, li mise in ventiquattro ventiquattrore e consegnò il tutto a Pollicino che, carico, ma ricco e felice, prese la via di casa. Prima però si fermò vicino alla caverna dove si trovava l’Orco ancora dormiente, il quale aveva la testa degna del pennello di Arcimboldi, tanto era ornata di frutta e verdura e profumata di pino silvestre Vidal. Lo arrotolò con spago per arrosti e poi chiamò il Corriere Reale che fece trasportare il bestione su un carro trainato da cento buoi scampanellanti e lo condusse così alle prigioni dove era molto atteso, perché ricercato dall’F.B.I. (Federazione Bambini in Insalata.) L’Orco appena si svegliò non potè che lanciare un urlo sciamannato: ”Voglio il mio avvocato!” Pollicino potè finalmente tornare a casa. Non vi dico la meraviglia dei suoi genitori e dei suoi fratelli nel vederlo carico di beni. Tutti lo accolsero con grida di gioia e di stupore. “Come vedete il destino non è scritto nelle stelle e sono certo che anche i bambini non nascono sotto il cavolo cappuccio o tra l’insalata riccia!” La madre andò incontro all’intraprendente figliolo poi, dopo aver nascosto tutte le ricchezze sotto il materasso roso dai topi, lo abbracciò. Pollicino sorrise e capì subito che quella ricchezza sarebbe svanita in breve tempo perché i genitori, da buoni paesani, non avrebbero cambiato le loro vedute ristrette e sarebbero rimasti preda di imbroglioni, spiritualisti e comicoterapeuti. Allora si decise a cercare un tutore perché garantisse un futuro ai suoi fratelli e li aiutasse a coltivare le loro capacità. Li iscrisse a scuole prestigiose perché avessero un posto degno nel mondo. E lui che fece? Lasciò la sua famiglia che comunque gli stava stretta e si recò a Corte. Quando vi arrivò, esclamò: ”Finalmente qui potrò fare qualcosa e non solo pensare a come sopravvivere. Il mio regno comincerà qui.” Aveva saputo che l’esercito reale stava combattendo una battaglia decisiva in un luogo distante duecento leghe. Tutti erano in ansia perché non si avevano notizie certe. Allora Pollicino propose al Re: ”Maestà, se lo desiderate, io posso farvi sapere l’esito della battaglia prima di sera.“ Prima di sera? Prima che si faccia buio? Prima che arrivi la luna, che il cinghiale s’arrischi tra le case e la civetta lanci il suo “Quick Quick”? Ti farei ricco, ti inonderei di monete d’oro, ti manderei in vacanza dal Sultano del Brunei se tu fossi veramente capace di questo! Ne va del mio esercito e di conseguenza del mio regno! Che diranno i miei sudditi e i miei collaboratori se non riesco neppure a sapere l’esito di una battaglia?” “Lasciate fare a me, questo sarà lavoro mio” rispose Pollicino e partì come un razzo, calzando gli ormai noti stivali delle sette leghe che gli permettevano dieci marce in più, così prima di sera il Re ebbe le notizie e Pollicino la sua grande ricompensa e un incarico: diventare il corriere del Re per tutta la vita. Così Pollicino, dopo che i fratelli ebbero terminati gli studi prestigiosi ed ebbero avuto col suo aiuto delle cariche importanti a Corte, potè tirare un sospirone di sollievo. Con grande stupore ricevette una lettera dalla madre che così gli diceva: ”Voglio diventare corrispondente estera, imparare il francese e l’inglese e girare il mondo. Leggendo ”Il gatto con gli stivali” m’è venuta questa idea. Ti abbraccio, tua madre.” Poi fu la volta del padre che lo informò di aver aperto una falegnameria per produrre stuzzicadenti per la Casa reale. Pollicino gongolante schiacciò un occhio e cantò: ”Vi ho sfidato, o stelle!”