Fiabe

le fiabe di Angela Cavelli
prendono spunto da quelle classiche

Quando le parole degli altri sostituiscono la propria esperienza, è meglio non ascoltare e rinchiudersi nel cesso.
di Angela Cavelli

Fiabe

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Sabato 2 Aprile, 2011
C’era una volta in Germania una piccola città chiamata Hamelin. I tetti erano aguzzi, i camini erano alti alti e il fumo che usciva da questi era nero nero. Il fiume, almeno così pareva, scorreva placido placido e intorno si svolgevano colline verdi. Per le strade, nei cortili, nelle stalle, nei pollai si udiva un vociare di bambini. Giocavano a nascondersi dappertutto, si infilavano nei posti più impensati, negli antri più nascosti. E quando qualcuno veniva scovato eran grida e saltelli e rincorse: “Ti ho trovato, ti ho pescato, t’eri fatto piccolino, ma hai lasciato le briciole della merendina come fossi Pollicino e io ti ho trovato! Ora sei sotto tu!” E poi di nuovo corse e rincorse, dibattiti, litigi e di nuovo patti. Ma ad un certo punto non più grida, schiamazzi, sollazzi, giochi: tutto cambiò ed era come se su Hamelin fosse caduta una grandine nera. I cortili ch’erano stati puliti e ornati di fiori s’eran ridotti ad essere luridi e puzzolenti, ovunque regnavano rifiuti e la città aveva assunto l’aspetto di un triste immondezzaio. I tetti rossi e lucidi mostravano tegole spostate, rotte o imbrattate, le porte e le finestre erano tutte rosicchiate e le tendine, che erano state il vanto della cittadina, erano ora mangiucchiate e sbrindellate e davano alle case un aspetto sinistro da convention di streghe ubriache di prezzemolo e aglio. Le strade, coperte da un liquame maleodorante e nero, sembravano strisce di bitume dove nessuno più metteva piede o scarpetta. Gli abitanti, grigi e malconci, stavano ritirati in casa e uscivano raramente perché avevano paura; i bambini poi non giocavano più e non facevano che lamentarsi fin che avevano fiato e ugola. Non più schiamazzi, dunque, gorgheggi e vocalizzi, grida, giochi. Che era successo? Forse un meteorite aveva ferito la terra e oscurato il sole? Forse il re aveva abbandonato le sue terre per castigare gli abitanti che non l’avevano apprezzato? E invece di mandare il Diluvio Universale, troppo impegnativo, aveva rovesciato su Hamelin la sua nera bile o spremuto il succo di miliardi di seppie? O forse un’angoscia oscura aveva coperto il cuore degli abitanti di Hamelin per evidenziarne la decadenza? Era così, ma questa angoscia dei cuori, segnale di un disagio crescente negli abitanti, non era stata che l’estrema e inascoltata difesa di una città che s’era già predisposta ad una invasione spaventosa. Tempo prima, quando ancora Hamelin, la bella Hamelin, era chiamata la stella del Nord, i cittadini avevano già cominciato a perdere la bussola: qualcuno aveva abbandonato la biblioteca perché pensava d’aver la scienza infusa, qualcun altro poi s’era messo a far baffi sulle statue marmoree della cattedrale perchè eran troppo pallide e forse troppo belle e poi aveva pensato di tagliar loro la testa per guardarci dentro e trovarvi così la sede delle idee e dell’amore; altri invece erano entrati notte tempo nella pinacoteca, che non è una scatola della zia Pina, e avevan cominciato a dar di rasoio e lama così da far la barba a dolci visi di fanciulle, a tagliare di schianto baffi virili e ad accorciar abiti preziosi così che quadri di mercanti, dignitari e santi eran diventati filetti di triglia colorata. Il teatro poi, tutto ricoperto di velluti e sete, ricco di drappi e di oro, aveva visto scemar l’interesse degli abitanti di Hamelin che l’avevano trovato troppo osé, dopo aver visto uno spettacolo in cui un certo Edipo aveva sposato la madre e ucciso il padre. Si erano allora alleati e avevano appeso gli attori a testa in giù per una mattinata, dopo aver loro tagliato i capelli e dato loro da bere una tisana al ricino perché si purgassero dall’insano racconto di Edipo e Giocasta. Ori e drappi avevano così cominciato ad ammosciarsi e a poco a poco il teatro era diventato la sede del club dei Puri Barboni di Hamelin. Un tale poi aveva abbandonato gabbie e gabbione vuote e sudicie nei prati, dopo averne fatto scappare gli abitanti. Sosteneva, infatti, che gli animali erano più simili a Dio degli uomini, i quali, solo dopo la terza o quarta reincarnazione, e solo dopo aver imparato il linguaggio canino o suino o altro, avrebbero potuto diventare animali e dunque degni di libertà. Ma prima del “Ba, bau, micio, micio” niente da fare. Quest’uomo, infatti, teneva sul comodino uno scarafone egizio imbalsamato e il cervello di una mucca pazza inglese appeso alla parete dell’atrio come souvenir portafortuna. Anche il Municipio poi s’era messo a dar di testa. S’erano emanate leggi sull’agricoltura che avevano fatto imbestialire più di un contadino perché in queste si diceva che i campi andavano coltivati un metro sì e uno no, perché la terra era come una madre e doveva pur riposare, che almeno riposasse a ore! E poi che i chicchi di grano dovevano essere lucidati a uno a uno prima d’esser venduti e che le ciliege dovevano essere radiografate prima d’esser messe sul mercato per sapere se erano sane. Il latte poi doveva essere prima munto poi in parte buttato: il secchio pari andava tenuto quello dispari disperso nei campi come si fa con le ceneri degli eroi agresti. Alcuni contadini avevano così preferito contare le foglie di mentuccia che coltivare i campi e li avevano abbandonati al riposo perpetuo così che questi s’eran ricoperti di fitta malerba. Nelle mura di Hamelin che difendevano la città s’erano poi aperte brecce e fenditure fori e aperture, buchi, squarci e rotture e i consiglieri municipali, presi nei tentacoli di leggi e leggine dedotte da teorie ecodinamiche, si erano dimenticati delle antiche mura che avevano difeso la città addirittura dai Romani. E siccome i nemici entrano là dove l’incuria regna, dei neri topastri, i quali dapprima avevano mandato in avanscoperta dei topi messaggeri con coda a monopattino che non avevano trovato nessun segnale di difesa da parte degli abitanti, neppure un briciolo di veleno, né colpi di scopa, né trappole scientifiche, s’erano appropriati di Hamelin, la bella, sì, proprio così. Non più canti di uccelli, né nidi di cicogne, né voli sul pelo dell’acqua di anatre e cigni, solo e ovunque squittii lugubri e nidiate febbrili di voraci roditori. Hamelin era diventata una città poco difesa e la sua porta era caduta sotto l’ariete di una nera ondata. Qualcosa di marcio ci doveva essere stato ad Hamelin per aver provocato dapprima la rovina della città da parte dei suoi stessi cittadini e poi il compimento dell’opera da parte degli invasori a quattro zampe. La felicità della cittadina era stata dunque solo apparente? Le sue tendine avevano forse nascosto ben altro che canti di cori angelici in file trionfanti? Gli antefatti sembravano confermare una situazione a dir poco confusa. Qualcosa negli abitanti aveva cominciato, già molto tempo prima, a non andare più. La signora Zabalionen aveva covato per anni un sordo rancore verso il marito che era sempre stato molto cortese e gentile con le commesse della pasticceria di loro proprietà, perché lui ammirava le loro forme e i loro dolci modi che facevano vendere brioche e tortelle e le paragonava alla pasta di bignè o alla Savaren alla crema. Niente di più, solo un bearsi di tanta grazia, ma la signora aveva perso l’esclusiva che voleva avere sul marito e non gradiva la sua giovialità e a poco a poco i dolci che lei preparava avevan perso sempre più il sapore fragrante delle uova, dello zucchero, della cioccolata per acquisire il sapore salato delle sue lacrime e quello amaro della sua bile. L’unica sua specialità era rimasta l’affogato al caffè che serviva al marito a colazione, pranzo e cena. Anche la figlia, che era stata bella e spumosa come una tartella allo zabaione, s’era ingrigita nel subire le lagne materne e nel sentire parlare male del padre, che prima le andava bene, e così aveva cominciato a pensare che se il padre era un disgraziato tutti gli uomini lo erano e non c’era di chi fidarsi. E così invece che tessere il velo da sposa s’era messa a cucire un sudario. Il signor Ecolamer, ricchissimo allevatore di zibellini ch’erano stati il vanto della regione e che avevano vestito tutti i re e i principi, aveva deciso di diventare animalistaecologista puro e aveva fatto uscire dalle gabbie, che aveva poi disperse per ognidove, gli animali perché, secondo lui, erano appunto gli unici esseri degni d’essere salvati e così, divenuto povero in canna faceva soffrire la fame ai suoi piccoli e a sua moglie. Anche i re avevano pianto e questo non s’ha da fare: non si fa piangere un re, anche perché il vestito del re fa il re e poi saranno i sudditi a confermargli o meno la sua autorità. Ma senza zibellini, di re non se ne parla nemmeno. La signora Hecviner era la giovane sposa di un maniscalco che, questi sì lavorava da mane a sera per la sua famiglia, ma, tornato a casa, doveva fare i conti con la sua signora. “Metti le pezze ai piedi prima d’entrare, lavati con la varichina prima di sederti sul divano, guarda l’ombra di una macchia là sul tavolino, ci hai forse messo le dita?” A tavola poi il signor Hecviner doveva fasciarsi tutto di bende per non contaminare la tovaglia perché le sue mani erano troppo avvezze a strigliare cavalli e doveva per questo mettere guanti sterili per prendere il pane. Per bere poi era costretto ad usare una pinza per acchiappare il bicchiere, così che i pasti, invece d’essere un momento piacevole per stare insieme e ringraziare Dio del lauto pranzo, erano tutto un susseguirsi di divieti che gli impedivano di gustarsi in pace il cibo e la compagnia.

(continua...)
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