Fiabe

le fiabe di Angela Cavelli
prendono spunto da quelle classiche

Ecco, ritornerò alla cultura
a quella che ho amata di passione
a quella madre antica e snaturata
che andava mendicando coi bambini.
di Angela Cavelli

Fiabe

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Sabato 2 Aprile, 2011
C’era una volta in Germania una piccola città chiamata Hamelin. I tetti erano aguzzi, i camini erano alti alti e il fumo che usciva da questi era nero nero. Il fiume, almeno così pareva, scorreva placido placido e intorno si svolgevano colline verdi. Per le strade, nei cortili, nelle stalle, nei pollai si udiva un vociare di bambini. Giocavano a nascondersi dappertutto, si infilavano nei posti più impensati, negli antri più nascosti. E quando qualcuno veniva scovato eran grida e saltelli e rincorse: “Ti ho trovato, ti ho pescato, t’eri fatto piccolino, ma hai lasciato le briciole della merendina come fossi Pollicino e io ti ho trovato! Ora sei sotto tu!” E poi di nuovo corse e rincorse, dibattiti, litigi e di nuovo patti. Ma ad un certo punto non più grida, schiamazzi, sollazzi, giochi: tutto cambiò ed era come se su Hamelin fosse caduta una grandine nera. I cortili ch’erano stati puliti e ornati di fiori s’eran ridotti ad essere luridi e puzzolenti, ovunque regnavano rifiuti e la città aveva assunto l’aspetto di un triste immondezzaio. I tetti rossi e lucidi mostravano tegole spostate, rotte o imbrattate, le porte e le finestre erano tutte rosicchiate e le tendine, che erano state il vanto della cittadina, erano ora mangiucchiate e sbrindellate e davano alle case un aspetto sinistro da convention di streghe ubriache di prezzemolo e aglio. Le strade, coperte da un liquame maleodorante e nero, sembravano strisce di bitume dove nessuno più metteva piede o scarpetta. Gli abitanti, grigi e malconci, stavano ritirati in casa e uscivano raramente perché avevano paura; i bambini poi non giocavano più e non facevano che lamentarsi fin che avevano fiato e ugola. Non più schiamazzi, dunque, gorgheggi e vocalizzi, grida, giochi. Che era successo? Forse un meteorite aveva ferito la terra e oscurato il sole? Forse il re aveva abbandonato le sue terre per castigare gli abitanti che non l’avevano apprezzato? E invece di mandare il Diluvio Universale, troppo impegnativo, aveva rovesciato su Hamelin la sua nera bile o spremuto il succo di miliardi di seppie? O forse un’angoscia oscura aveva coperto il cuore degli abitanti di Hamelin per evidenziarne la decadenza? Era così, ma questa angoscia dei cuori, segnale di un disagio crescente negli abitanti, non era stata che l’estrema e inascoltata difesa di una città che s’era già predisposta ad una invasione spaventosa. Tempo prima, quando ancora Hamelin, la bella Hamelin, era chiamata la stella del Nord, i cittadini avevano già cominciato a perdere la bussola: qualcuno aveva abbandonato la biblioteca perché pensava d’aver la scienza infusa, qualcun altro poi s’era messo a far baffi sulle statue marmoree della cattedrale perchè eran troppo pallide e forse troppo belle e poi aveva pensato di tagliar loro la testa per guardarci dentro e trovarvi così la sede delle idee e dell’amore; altri invece erano entrati notte tempo nella pinacoteca, che non è una scatola della zia Pina, e avevan cominciato a dar di rasoio e lama così da far la barba a dolci visi di fanciulle, a tagliare di schianto baffi virili e ad accorciar abiti preziosi così che quadri di mercanti, dignitari e santi eran diventati filetti di triglia colorata. Il teatro poi, tutto ricoperto di velluti e sete, ricco di drappi e di oro, aveva visto scemar l’interesse degli abitanti di Hamelin che l’avevano trovato troppo osé, dopo aver visto uno spettacolo in cui un certo Edipo aveva sposato la madre e ucciso il padre. Si erano allora alleati e avevano appeso gli attori a testa in giù per una mattinata, dopo aver loro tagliato i capelli e dato loro da bere una tisana al ricino perché si purgassero dall’insano racconto di Edipo e Giocasta. Ori e drappi avevano così cominciato ad ammosciarsi e a poco a poco il teatro era diventato la sede del club dei Puri Barboni di Hamelin. Un tale poi aveva abbandonato gabbie e gabbione vuote e sudicie nei prati, dopo averne fatto scappare gli abitanti. Sosteneva, infatti, che gli animali erano più simili a Dio degli uomini, i quali, solo dopo la terza o quarta reincarnazione, e solo dopo aver imparato il linguaggio canino o suino o altro, avrebbero potuto diventare animali e dunque degni di libertà. Ma prima del “Ba, bau, micio, micio” niente da fare. Quest’uomo, infatti, teneva sul comodino uno scarafone egizio imbalsamato e il cervello di una mucca pazza inglese appeso alla parete dell’atrio come souvenir portafortuna. Anche il Municipio poi s’era messo a dar di testa. S’erano emanate leggi sull’agricoltura che avevano fatto imbestialire più di un contadino perché in queste si diceva che i campi andavano coltivati un metro sì e uno no, perché la terra era come una madre e doveva pur riposare, che almeno riposasse a ore! E poi che i chicchi di grano dovevano essere lucidati a uno a uno prima d’esser venduti e che le ciliege dovevano essere radiografate prima d’esser messe sul mercato per sapere se erano sane. Il latte poi doveva essere prima munto poi in parte buttato: il secchio pari andava tenuto quello dispari disperso nei campi come si fa con le ceneri degli eroi agresti. Alcuni contadini avevano così preferito contare le foglie di mentuccia che coltivare i campi e li avevano abbandonati al riposo perpetuo così che questi s’eran ricoperti di fitta malerba. Nelle mura di Hamelin che difendevano la città s’erano poi aperte brecce e fenditure fori e aperture, buchi, squarci e rotture e i consiglieri municipali, presi nei tentacoli di leggi e leggine dedotte da teorie ecodinamiche, si erano dimenticati delle antiche mura che avevano difeso la città addirittura dai Romani. E siccome i nemici entrano là dove l’incuria regna, dei neri topastri, i quali dapprima avevano mandato in avanscoperta dei topi messaggeri con coda a monopattino che non avevano trovato nessun segnale di difesa da parte degli abitanti, neppure un briciolo di veleno, né colpi di scopa, né trappole scientifiche, s’erano appropriati di Hamelin, la bella, sì, proprio così. Non più canti di uccelli, né nidi di cicogne, né voli sul pelo dell’acqua di anatre e cigni, solo e ovunque squittii lugubri e nidiate febbrili di voraci roditori. Hamelin era diventata una città poco difesa e la sua porta era caduta sotto l’ariete di una nera ondata. Qualcosa di marcio ci doveva essere stato ad Hamelin per aver provocato dapprima la rovina della città da parte dei suoi stessi cittadini e poi il compimento dell’opera da parte degli invasori a quattro zampe. La felicità della cittadina era stata dunque solo apparente? Le sue tendine avevano forse nascosto ben altro che canti di cori angelici in file trionfanti? Gli antefatti sembravano confermare una situazione a dir poco confusa. Qualcosa negli abitanti aveva cominciato, già molto tempo prima, a non andare più. La signora Zabalionen aveva covato per anni un sordo rancore verso il marito che era sempre stato molto cortese e gentile con le commesse della pasticceria di loro proprietà, perché lui ammirava le loro forme e i loro dolci modi che facevano vendere brioche e tortelle e le paragonava alla pasta di bignè o alla Savaren alla crema. Niente di più, solo un bearsi di tanta grazia, ma la signora aveva perso l’esclusiva che voleva avere sul marito e non gradiva la sua giovialità e a poco a poco i dolci che lei preparava avevan perso sempre più il sapore fragrante delle uova, dello zucchero, della cioccolata per acquisire il sapore salato delle sue lacrime e quello amaro della sua bile. L’unica sua specialità era rimasta l’affogato al caffè che serviva al marito a colazione, pranzo e cena. Anche la figlia, che era stata bella e spumosa come una tartella allo zabaione, s’era ingrigita nel subire le lagne materne e nel sentire parlare male del padre, che prima le andava bene, e così aveva cominciato a pensare che se il padre era un disgraziato tutti gli uomini lo erano e non c’era di chi fidarsi. E così invece che tessere il velo da sposa s’era messa a cucire un sudario. Il signor Ecolamer, ricchissimo allevatore di zibellini ch’erano stati il vanto della regione e che avevano vestito tutti i re e i principi, aveva deciso di diventare animalistaecologista puro e aveva fatto uscire dalle gabbie, che aveva poi disperse per ognidove, gli animali perché, secondo lui, erano appunto gli unici esseri degni d’essere salvati e così, divenuto povero in canna faceva soffrire la fame ai suoi piccoli e a sua moglie. Anche i re avevano pianto e questo non s’ha da fare: non si fa piangere un re, anche perché il vestito del re fa il re e poi saranno i sudditi a confermargli o meno la sua autorità. Ma senza zibellini, di re non se ne parla nemmeno. La signora Hecviner era la giovane sposa di un maniscalco che, questi sì lavorava da mane a sera per la sua famiglia, ma, tornato a casa, doveva fare i conti con la sua signora. “Metti le pezze ai piedi prima d’entrare, lavati con la varichina prima di sederti sul divano, guarda l’ombra di una macchia là sul tavolino, ci hai forse messo le dita?” A tavola poi il signor Hecviner doveva fasciarsi tutto di bende per non contaminare la tovaglia perché le sue mani erano troppo avvezze a strigliare cavalli e doveva per questo mettere guanti sterili per prendere il pane. Per bere poi era costretto ad usare una pinza per acchiappare il bicchiere, così che i pasti, invece d’essere un momento piacevole per stare insieme e ringraziare Dio del lauto pranzo, erano tutto un susseguirsi di divieti che gli impedivano di gustarsi in pace il cibo e la compagnia.

(continua...)
Sabato 2 Aprile, 2011
[...]

Per le strade era costretto a girare con una pezzuola legata alla bocca e poi, prima di entrare in casa, doveva bruciarla nel camino del suo laboratorio, urlando: ”Vattene via microbo can, sia dalla testa che dalle man”. La sua signora era arrivata a chiedergli con dolcezza estrema di far bollire i suoi arnesi da lavoro e di lavare con una bella saponata le zampe dei cavalli prima di ferrarli e di usare una pinza tiralingua per poter lavare i denti ai quadrupedi. A letto poi si doveva coricare con una tuta inamidata che gli impediva i movimenti e che lo faceva rimanere fermo nel letto come un baccalà. Appena osava accarezzare la sua signora, superando il fastidio dello scrocchiare della tuta simile ad una ingessatura, la bella signora urlava: ”Non contaminarmi!” E così s’era ridotto a sognare di vivere in una baracca dove si poteva rotolare a suo piacimento nel letto, mangiare cosciotti abbrustoliti nella cenere e tirare palle di fango ad una sagoma di cartone che aveva le fattezze di qualcuno che lui conosceva molto bene. Ma quello che più lo angustiava era vedere il suo bimbo crescere come in provetta. Non poteva permettersi alcun gioco tranne quelli puliti, come la ricomposizione dei puzzle della Ravensburger, dopo che questi eran stati disinfettati con alcool e lavati con sapone di Marsiglia. Il bimbo sembrava immerso in una salda d’amido, tanto era bianco e irrigidito e in più profumava di canfora, così da impedire a qualsiasi essere vivente sia con le ali che con le gambe di girargli attorno. Come caramelle gli eran concesse delle pasticche di clorofilla mentolata, tanto che i compagni pensavano si facesse scorpacciate di dentifricio. Quando invitava gli amici a giocare in casa sua, la signora si sentiva liberale per questo, il bambino era costretto a vedere i compagni subire un lavaggio accurato e una disinfestazione contro eventuali pidocchi, acari o scarafoni. E così, dopo alcune esperienze di questo tipo, i suoi compagni lo salutavano solo da lontano, sventolandogli una benda sterilizzata. Lovencraft, un giovanotto sui vent’anni, che ce l’aveva messa tutta per imparare a leggere e a scrivere, voleva infatti diventare scrivano del re, era stato poi criticato duramente dal padre, che, dopo averlo incitato per anni a diventare qualcuno, gli aveva poi detto, con palese invidia: ”Ma che ti impegni a fare? Leggere e leggere? Scrivere e scrivere? Non serve a nulla, l’importante è essere forte come io sono forte, acchiappare ragazze a destra e a manca come io acchiappo, farsi rispettare da tutti col terrore, come io mi faccio rispettare, insomma hai sbagliato tutto!” Il poveretto, invece di mandare al diavolo il suo genitore, s’era dunque messo in mente che ciò che aveva fatto con tanto impegno era tutto da buttare e non s’era più difeso e aveva pensato di diventare il più forte e il più sciupafemmine. Peccato che non gliene riuscisse una e stava fissato per ore a dire: ”Voglio una donna, voglio una donna, almeno una. Voglio essere forte, voglio essere forte”. Ma più si convinceva, più fuggiva dalle donne e più i suoi muscoli si afflosciavano. Diceva infatti di volere, ma in lontananza aveva il pensiero di non potere: solo l’incontro con una donna che gli avesse fatto venir voglia avrebbe potuto farlo uscire dalla sua impotenza. Una fanciulla, Hannah, bionda come il grano e sinuosa come un’anfora, aveva avuto passioni e amori in quantità. Ma il padre, i cui principi morali non contemplavano affetti e passioni, vedendo la prosperosa figlia dedicarsi troppo alla cura del suo aspetto per piacere ai giovani di Hamelin, aveva deciso di farla diventare una grande signora e l’aveva costretta a lasciare il suo lavoro di cameriera presso un ostello per iscriverla ad un corso accelerato di “amor cortese ed educazione spirituale”. La fanciulla a malincuore aveva cercato di seguire le lezioni di danza soave, di cucina curtense e di morale puritana, ma era stata bocciata. Al che il padre, che aveva convinto anche la madre a stare dalla sua, a pranzo le gridò: ”Tu con me non mangerai più, mi fa schifo vederti alla mia mensa”. E la fanciulla da quel giorno s’era messa a masticare nello sgabuzzino dei gatti. Ma non si può dire che mangiasse. Tutto ciò che metteva in bocca le era indigesto e ben presto non aveva mangiato più. Aveva deciso di diventare la più magra e la più dura di Hamelin. Così le sue prosperose forme erano diventate delle formine steccolose e il suo bel viso aveva assunto l’aspetto rugoso di una vecchia. Jorghenwar, che da infante era stato bello come il sole e dolce come la torta Sacher, ad un certo punto aveva cominciato a far volare tutto dalla finestra. Come mai? La madre, donna ricca e orgogliosa, se l’era portato a casa piccino dalla sua donna di servizio che aveva avuto dieci figli e che, vedendo la sua padrona senza prole, libera da ciucci e pannolini, glielo aveva consegnato perché lo facesse diventare suo e lo crescesse nella sua casa tra gli agi. Ma invece di crescere il figlio, la donna s’era fissata che l’avesse rubato alla sua fantesca, che quel figlio dunque non avrebbe mai potuto essere suo perché non avrebbe mai potuto dimenticarsi delle sue origini, perché queste sono sacre e inviolabili e sono come il calco per la creta, lo stampo per la pasta, l’imprinting per i pulcini e per i piccoli d’uomo. Così che Jorghenwar, che avrebbe voluto solo stare bene con la nuova famiglia, non fu mai certo di avere una madre e un padre e non faceva altro che giocare a nascere ogni giorno da una verza che chiamava: “Mamma”, pensando d’essere un mollusco polmonato con un corpo allungato e viscido come una lumaca. Arrivato a tre anni incominciò a fare l’obiettore: scoprì che il biberon oltre ad essere messo in bocca poteva essere fatto volare dal balconcino barocco perché chi glielo offriva ormai gli andava di sghimbescio, e così faceva con la minestra che preferiva lanciare a cucchiaiate o a sputacchi dalla finestra o con le lasagne ricce che dapprima pettinava e poi scaraventava sulla testa di chi passava perché se ne servisse a mo’ di parrucca. Disfaceva poi i letti appena fatti, tagliava i suoi abiti a fettuccine e a linguine, bruciava giochi e regali, attaccava ai vestiti dei suoi maggiori dei petardi alla Pietro Micca, così da vederli balzare urlanti dalle sedie Luigi XV o dalla dormeuse dalle spalliere a riccioli e volute. Quando poi comiciò ad andare a scuola continuò la sua carriera di obiettore di coscienza: segava con precisione di chirurgo quaderni e libri, giocava a fioretto con matite e penne e diceva che lui non aveva nome e che era nato da solo e che da solo si era dato la vita. Un altro bambino, Lionel, aveva rinunciato ai successi a scuola, agli sport, agli amici, anzi, trattava questi a calci e pugni perché aveva paura. Qualcosa lo minacciava. Parlava solo di animali, si sentiva un leone che combatteva sempre con tori, elefanti, rinoceronti e a volte, nel sonno, li chiamava “papà”. Invece che interessarsi ad aver i benefici che il padre aveva e altri ancora, voleva strappare corna, zanne, proboscidi e così perdeva ogni occasione per avere successo. Eppure, nonostante tutto ciò, gli abitanti di Hamelin avevano continuato la loro vita come se niente fosse, facendosene un baffo delle loro angosce, anzi, scacciandole dalla porta e vivendo come se niente li potesse mai toccare. La pasticceria aveva aperto ogni mattina e la signora Zabalionem mostrava ugualmente il suo sorriso a mezz’asta, un po’ tirato e stiracchiato; sua figlia, pur sognando una notte sì e una no di camminare sulle tombe, diceva che il mondo andava così e che non si poteva fare niente. Il signor Ecolamer, pur vedendo appassire la vitalità di moglie e figli, fisso nella sua purezza ecologista, faceva discorsi ai cani e ai gatti, incitandoli alla rivolta. Questi, scocciati, dopo diversi “bau bau e miao miao” di avvertimento gli si erano avventati contro, lasciandolo tutto pesto a fare i suoi discorsi sulla collina. Pur tuttavia egli non si era scoraggiato perché pensava di rinascere ogni giorno fino a quando cani e gatti avrebbero capito. Intanto cercava sollievo a un’ansia crescente che gli prendeva la gola buttandosi ogni mattina nel fiume che, diceva, lavava ogni pensiero triste. La signora Ecviner pur vedendo il marito allenarsi per ore al tiro al piattello aveva deciso di candeggiare il piattello e di appendere il figlio, sempre più bianco, al filo della biancheria perché così, esposto al sole, avrebbe ripreso colore e si sarebbe disinfettato meglio. Alle malelingue che la criticavano diceva: ”Sono pura come il bicarbonato di sodio!” Il giovane Lovencraft s’era ridotto a parlare solo di donne e d’eroi, ma non combinava più nulla e, pur girando torvo per il villaggio, diceva a tutti che lui era l’uomo più potente della città. Suo padre continuava a predicare che i figli non sono mai forti come i padri e questa era una legge di natura e andava rispettata. Hannah aveva cambiato compagnia: s’era ridotta a parlare solo con le oche e a mangiare chicchi di frumento e il padre aveva trovato di che consolarsi perché le oche avevano un incedere regale e al tempo dei Romani stavano a guardia del Campidoglio. I genitori di Jorghenwar pensarono dapprima che il figlio fosse affetto da saturnismo per via delle gengive grigiobluastro e non pensarono mai che ciò fosse dovuto alle scorpacciate di inchiostro che il figlio si faceva, invece di riempir pagine di bella scrittura con pennini a gobbetto o a campanile. Poi incominciarono a leggere la cabala per vedere nel futuro che sarebbe successo al loro quasi erede che faceva l’inferno in terra.. La cabala disse che, dopo aver rotto tutti i cristalli della casa, aver incendiato tutti i granai dei vicini, si sarebbe placato. E allora non lo fermarono più e decisero, allegramente, si fa per dire, di lasciarlo fare, così si sarebbe sfogato: “il bubbone” si dissero “quando scoppia guarisce”. Peccato che Jorghenwar non fosse un ponfo! Per non dire di Lionel che ora girava per la città con mestoli e forchettoni, trivelle, scalpelli e mazzuoli e li usava come armi d’attacco perché si sentiva circondato ovunque da nemici che lo spiavano. I genitori avevano pensato bene che il loro bimbetto si stesse semplicemente allenando a difendersi dalle insidie della vita e dal mondo che lo circondava. Questa la situazione apparentemente felice di Hamelin prima dell’invasione: tutti sembravano vivere senza pensieri, ma ciò che turbava gli animi, scacciato dalla porta sembrò rientrare dalla finestra sotto forma di topi. Questi avevano avuto fiuto: in una cittadina in cui le paste non eran più paste, il cibo non era più da tutti gradito, la ricchezza era per alcuni disattesa, certe spose non sposavano più, alcuni ragazzi non sapevan più che dritta prendere, dei bambini vivevano l’inferno o facevano l’inferno, e dove nessuno procurava più zibellini ai re o difendeva campi, abitazioni e mura perché il lavoro s’era tinto d’accidia, ecco, lì avrebbero potuto abitare, perché i topi abitano nelle città non ben abitate, dove la difesa è divenuta un mero optional da prendere prima o dopo i pasti solo dopo un’eclissi di sole o prima di una nuova glaciazione. E vennero dunque e occuparono tutto: solai, terrazze, fienili, dispense e perfino culle. E i piccoli invece di sognare tenerissime balie alla Maupassant e rosse fragole incominciarono ad avere sonni agitati, popolati da enormi roditori che, a volte e, purtroppo, in realtà, assaltavano il loro letto e aggredivano le loro tenere gole. Pianti, lacrime e svenimenti assalirono le mamme e le nonne le quali cominciarono a rimpiangere i bei tempi passati. I topi trovarono molto gustosi i cibi preparati dalle signore di Hamelin, così che all’ora di pranzo prendevano posto a tavola e razziavano tutto con una certa predilezione per i formaggi olandesi e per le scamorze italiane. I consiglieri comunali approvarono varie leggi che affissero per le strade e le piazze, ma i topi mangiarono anche queste e continuarono a razziare tedesche prelibatezze. Anche l’idea di milioni di trappole fu scartata perché assurda. La trovata di far circolare gatti transgenici, made in Taiwan, con la grinta delle tigri, la forza del leone e gli aculei dei porcospini, fece ridere i topi che già si erano mangiati tutti i felini in circolazione ed erano arrivati a ridurre a carcasse gli animali dello zoo di Hamelin. Anche i gatti importati e quotati in Borsa avrebbero dunque fatto la stessa fine. La popolazione furibonda si diresse in massa verso il Municipio e urlò contro il sindaco tutto il vocabolario Zanichelli delle invettive. Il sindaco si trovò squassato da un tremore di tipo parkinsoniano e tentò di difendersi consigliando una dieta a base di paté di topo. Ma non poté finire perché fu preso d’assalto da mille roditori che volevano pasteggiare con il suo fegato e la sua coratella. Sciammanato, con l’unico capello rimastogli dritto in piedi, udì bussare alla porta. Un tipo originale, mai visto prima, gli si presentò dinnanzi: portava un cappello ampio a forma d’ombrello tutto impiumato, i capelli gli scendevano a trucioli sulle spalle, il suo collo era ornato da una coccarda bicolore mentre giacca e calzoni di raso erano a scacchi gialli, verdi e rossi e il mantello era di bianco zibellino che avrebbe fatto gridare: ”Nudo, nudo” al signor Ecolamer.

(continua...)
Sabato 2 Aprile, 2011
In mano il bizzarro gentiluomo aveva un lunghissimo piffero. “Se volete fare un patto con me io vi libererò dai topi! Possiedo un’arte che è un potere: sono in grado di condurre dove voglio ogni creatura, si tratti di animali o di uomini, non con forza o prepotenza, ma per seduzione. Mi darete mille fiorini se farò quel che dico?” Già i topi presenti lo stavano a guardare incantati e le femmine sbatterono le ciglia lunghe come quelle di Minni e si fecero un nodo sulla codina, mentre i maschi si accarezzarono i baffi e si lisciarono il pelo. “Non diecimila, ma centomila fiorini e il letto a baldacchino di Re Luigi e la stanza di Beethoven e l’altalena di mio figlio, il Thamagoci di mio nipote, l’orologio a cucù di mia moglie Swatch and Swatch, la clessidra di mio zio con sabbia del deserto dei Tartari, il Play station e una forma di formaggio senza topi ma con tartufo bianco d’Alba” urlò il sindaco. II patto fu concluso e senza perdere un minuto il pifferaio magico scese nella piazza del paese. Accostò alle labbra il suo lungo piffero, stette un momento a pensare, poi cominciò a suonare. E allora quel suono dolce e lungo, che parlava ai villi intestinali dei topi e ai loro centri corticali e che spazzava via anni di vile servaggio trascorsi negli Skinner-box, dette il via a un movimento incredibile: una fiumana di topi si riversò sulla strada e seguì il pifferaio. I topi lasciarono ogni ben di Dio, comprese le Bavaresi a tre piani, per seguire quel suono dolce, che faceva felici, e il pifferaio si incamminò verso il fiume. Chi squittiva imitando il suono della balalaika, chi ballava il rap e chi rapito nell’estasi sembrava avere le ali e lievitava, alzandosi da terra. Giunto sulla riva il pifferaio entrò in acqua, e con la sua melodia riuscì a far dimenticare l’arte di nuotare ai roditori, che così annegarono felici e i loro corpi furono portati via, lontano, dalla corrente. Un suono di corna di pentole e uno sfrigolar di petardi e di pesce fritto salutarono l’impresa del grande pifferaio. Il sindaco poté affacciarsi al balcone urlando: ”Cittadini, la grande ora è venuta, meglio un giorno da leoni che un milione di topi...Io ho dato l’incarico al pifferaio di risanare la città e mia sarà la gloria...” Tutti acclamarono, ma una voce s’alzò, dopo il clamore: ”Adda passà a nottata!” Il giorno dopo il pifferaio si presentò al sindaco perché onorasse il patto. “Suvvia” disse il primo cittadino, “voi, grande signore, volete parlare d’interesse, dopo che avete fatto una così grande azione? Non vi basta l’onore dopo l’ardita impresa? volete avere anche la pecunia? Siate felice di aver salvato vecchi, donne e bambini da una così nera catastrofe e piangete di gioia con noi. Vi basti la gloria di aver ridato il sorriso ai piccoli e di avere riportato il formaggio sulle tavole delle nostre vecchie nonne incanutite. Ciò vi basti dunque e non se ne parli più. Potrei darvi, giusto perché non si dica che c’è del marcio ad Hamelin, cinquanta fiorini e una vaschetta di pesci rossi. Prendere, signore, o lasciare. Ringraziate e poi toglietevi dai piedi che non posso star qui a dar soddisfazione a tutte le galline che han fatto uno straccio d’ovo.” Mai offesa fu più umiliante. Il pifferaio, sentendosi paragonare a una gallina e vedendosi davanti una misera ricompensa, ancora una volta richiamò il sindaco ad onorare il patto e poi, dopo aver ricevuto un nuovo rifiuto, s’avvolse nel mantello di zibellino e abbandonò la sala consiliare, non senza aver lanciato un : “Ve ne pentirete amaramente, non sapete quello che state facendo...Badate... potrei suonare una melodia diversa e allora...” Il sindaco, tutto gongolante perché quel giorno era per lui di grandi appuntamenti, si mise a ridacchiare. Chi era dunque quell’innocuo e mite pifferaio al confronto del Gran Visir d’Oriente, del Gran Ciambellano del Regno Unito e del goliardico Presidente del Regno a stelle e strisce che volevano incontrarlo in un summit per donargli “Il Broccolo d’oro”? Si stiracchiò e immaginando la grandezza dei suoi potenti amici, padroni del mondo, scacciò quel pensiero di riconoscenza che gli era balenato improvvisamente e, pur con una punta d’amaro declamò: ”Suona, suona pifferaio l’ottavino senza chiavi, suona Mozart con il fiato, pur col banjo e il liutino, col fagotto e il bombardino, con la tuba e la chiarina, prendi anche le maracas, il triangolo ed il gong, fai ballate alla robiola, al caprino, al gorgonzola, gioca pure a far l’indiano, ma da noi tienti lontano!” Il pifferaio uscì veloce come il vento a riveder le stelle. Quando fu per strada si guardò intorno: i bambini e i giovani di Hamelin gli vennero incontro per festeggiarlo e per ringraziarlo e volevano che ancora lui suonasse e questa volta per loro. “Suonaci qualcosa pifferaio”, implorò la signorina Zabalionen, perché quando tu suoni mi fai venire voglia di nuovo di tessere il mio velo da sposa e di abbandonare il mio sudario e i miei neri pensieri e di correre dal mio amato e di vivere con lui fino al mio ultimo battito. Suona, pifferaio...” “Se suonerò soltanto, a te non rimarrà che ballare. Ma solo i topi ballano dove la casa è abbandonata. Ma dov’è la tua casa?” “La casa di mio padre non è più la mia casa e l’unica eredità che ho avuto sono paste avvelenate da mia madre ... Il mio amato non è più solito varcare la soglia della dimora di mio padre da quando l’ho scacciato in malo modo perché.... voi uomini siete tutti uguali...” “Ci son dunque anch’io nel tuo mazzolino, eppure se sei qui non è per tirar freccette”. “Mi strapperei la lingua, ma ormai l’ho detto”. “Strappati quella non tua e intanto che ci sei cavati pure gli occhi che non ti appartengono e vedrai che ne scoprirai delle belle!” “Mi stai chiedendo qualcosa di impossibile...anche se mi piace l’idea..” “Ma è perché ciò che ti va diventi possibile....” Mentre la signorina Zabalionen pensava a come risolvere il quesito, si avvicinarono al pifferaio due ragazzini dal viso inselvatichito, vestiti d’erba e di fiori: “Veniamo con te, pifferaio, non vogliamo morire di fame, vogliamo una tavola apparecchiata con stoviglie d’oro, candelabri d’alabastro, cibi succulenti e commensali giocosi: siamo stanchi di pane di segale e di petunie fritte, vogliamo dare la caccia ai fagiani, mangiare a Natale il tacchino ripieno e coprirci d’inverno con calde pellicce. Nostra madre piange sull’ermellino fuggito, nostro padre predica sulla collina, suona, pifferaio e prendici con te...” chiesero in coro i figli macilenti dell’eco-purista Ecolamer. “Se vi riempio di tacchino oggi, di faraona domani, e di paté d’oca posdomani voi non farete altro che aspettare tutto da me e io diventerei povero in canna mentre voi sonnecchiereste al sole. Se invece vi date una mossa per imparare ad allevar tacchini, rimpinzar faraone, trasformare rosei maialini in salami profumati, e inoltre se saprete allevare gli zibellini per i re, riprendendovi così ciò che era di vostro padre, avrete cibo in abbondanza e potremo festeggiare insieme il Natale, il Capodanno e la festa del papà con i sovrani e da sovrani”. “Vuoi dire che arrotoleremmo con rosmarino, salvia e alloro anche papà?” “Papà è già condito in salamoia, c’è solo da aspettare la carica degli ermellini...e meglio ancora quella dei bisonti... per quanto non direi l’ultima parola.... tuo padre può sempre ecodileguarsi... e cambiar anima...” Mentre i due piccoli Ecolamer facevano progetti su salumifici e porcellaie, gridando a tutti: ”Finalmente non dobbiamo aspettare d’essere uno e ottanta per pensare e progettare qualcosa di grande, noi questo lo sapevamo di già, ma la confusione è grande sotto il cielo dei nostri padri”, un bambino vestito di bianco tutto inamidato s’avvicinò al fantastico suonatore con una bottiglietta di cloro. “Posso regalarti solo questa, è ciò che ho trovato in casa. Io vorrei imparare a suonare come te, pifferaio, ma nessuno mi si avvicina perché nelle mie vene scorre olio canforato e i miei occhi hanno visto solo barattoli di detersivo così che nel mio futuro c’è solo una lavanderia, ma se tu muovi le note io ricomincerò a giocare ed a correre e saprò suonare...” disse con voce accorata il piccolo Ecviner. “Hai parenti che lavorano nello zoo?” chiese curioso il pifferaio. “No, solo nelle miniere di talco e nelle cave di roccia sterile” rispose mestamente il piccolo. “Bene, se ti va, al Circo Barnum cercano un fanciullo mingherlino perché balli sui lupi, sui cavalli, sugli elefanti, sulle zebre e sul bue muschiato. Balli acrobatici, intendo”. “Ma io... sono piccolo e... ingessato” disse il bambino guardandosi le braccia stese a mo’ di saluto romano per via della salda d’amido. “Non aver paura non è detto che chi ha fatto bagni nel gesso per tanti anni non possa incominciare a ballonzolare sulle groppe, a saltellar sui tetti, a navigar sui mari, a riveder le stelle, a rincorrer donzelle, a suonar pei boschi e poi chissà... voglion proprio uno come te... un po’ strigliato...” “Io ti seguo, me l’aspettavo da te, tu non mi fissi nell’appretto... sai, da piccolo ho imparato ad andare in bici e volevo volare come la poiana... in alto. “Anch’io” dicevo “come lei”, ma è bastata una caduta e mi hanno rimesso nella scatola... ora potrò riprendere quota.. Il giovane Lovencraft, poi, si gettò ai piedi del pifferaio: ”Tu che conduci uomini e animali dove vuoi, fammi da padre, perché non so più chi sono e cosa voglio; io so scrivere mille canzoni e leggere i più bei poemi, insieme fonderemo la più grande scuola....” “Non pensare d’avermi trafitto con la tua dolorosa storia... A chi vorresti scrivere?” “...Al re... è da una vita che ci penso...” “Perché?” chiese intrigato il pifferaio. “Perché emani un editto e faccia riaprire la biblioteca, il teatro, il cabaret e la Filarmonica, le sale da tè e da biliardo...” “Se tu ti proporrai come curatore di queste imprese e non interpellerai il Municipio, io suonerò ad ogni prima e onorerò il re con il dono di una manto di zibellino. Ti propongo come prima opera teatrale il “Gregorius” di Hartmann von Aue, dimenticato dagli uomini, ma non da Dio. “E le donne?” chiese costernato il giovane. “Gioca di sponda, è il miglior modo per andare in buca” rispose gaudente il suonatore. Hannah invece si avvicinò in punta di piedi al pifferaio, circondata dalle sue oche e gli disse: ”Suona per me, pifferaio, perché le regole di mio padre mi hanno catturata e non ho più voglia di sedere a tavola, né di amare. Aiutami a pensare di nuovo e a mangiare...” “Mi piacerebbe che tu oggi servissi un pranzo a me e a tutti i miei ospiti” disse il pifferaio facendo esplodere in un “Hurra” tutti i giovani e i fanciulli che aveva intorno a sé. Poi continuò: ”So che hai frequentato la cucina curtense e infatti hai modi da regina, anche le tue oche sono regali...” “Il figlio del re cerca una guardiana dai modi aristocratici… può essere un’occasione... per le mie oche.” “E anche per il figlio del re...” buttò lì imprevedibilmente il pifferaio. Le guance di Hannah si colorirono finalmente di un rosa acceso ed ella alzò lo sguardo che ora cercava, timidamente ancora, di spaziare oltre i confini angusti della cittadina di Hamelin.... A questo punto il pifferaio si guardò ancora una volta intorno: le mamme e i papà chiamavano i loro figlioli perché rientrassero in casa, ma nessuno di loro si muoveva. Stavano tutti mettendo mano alle loro iniziative, sicuri che le parole del pifferaio li avrebbero accompagnati. Il piccolo Jorghenwar si aggiunse al gruppo e lasciò la torcia che aveva fra le mani e con la quale voleva incendiare il Municipio e giocare agli indiani col sindaco. Si avvicinò al pifferaio, tirandolo per i calzoni: ”Tu mi piaci” disse “se mi porti con te... incendieremo il mondo... bruceremo boschi e foreste…” aggiunse poi con cipiglio il piccolo. Inaspettatamente il pifferaio accarezzò la faccia bluastra del bambino e poi lo prese in braccio, e questi, forse per una svista, si lasciò prendere. “Ma non dobbiamo essere dei duri io e te?” chiese il piccolo.

(continua...)
Sabato 2 Aprile, 2011
[...]

“Queste guanciotte non sembran proprio pietre e le tue manine sembran fatte di latte e biscotti e queste braccia tornite e morbide paion proprio di pasta di mandorle, fatte per abbracciare...” “Ma... ma… io sono confuso... allora avevo ragione a stare male... non ho avuto una mamma... ma un fantasma... sempre arrabbiato.. pensavo che fosse per colpa mia... perché ero “piccolo, brutto e anche tattivo....” “Non era più la mamma, ma qualcuno che riempiva di grida e urla l’aria e tu non sei cattivo, né piccolo, né brutto, ma sei un bel birichino...” “E allora tu sei tattivo, tattivo, tattivo!” cantilenò felice il piccolo. “E io ti morsico” gridò ilare il pifferaio mentre Jorghenwar, divincolandosi, si faceva rincorrere ora da quel mostro giocoso che cercava di acchiapparlo per riempirlo di chissà quali morsi... e pizzichi.. Dopo aver girato e fatto piroette per ogni strada di Hamelin per rincorrere il saltellante Jorghenwar che sapeva nascondersi ovunque e che godeva e rideva senza più contenersi di quelle corse da bambino in compagnia di un adulto, il pifferaio ritornò nella piazza con il piccolo scavezzacollo che ormai l’aveva preso per una roccia dolomitica e cercava di scalarla per raggiungere la cima del cappello piumato, gridando: ”Sei mio, sei mio.... sei mio.. sei mio... zio...” Lionel, travestito da Re Leone, si fece largo e raggiunse il pifferaio per cercare, ma inutilmente, di strappargli il piffero con una tenaglia formata da due chele di scorpioni. Poi gli gridò: ”Chi è più forte tra te e me?” Il vivace suonatore di flauto non si fece prendere di sorpresa e inventò lì per lì un gioco: “Sai dirmi la differenza tra un leone e una leonessa, tra un caprone e una capretta, tra un toro ed una mucca, tra una pecora e un montone? Lionel, strabiliato, rimase di stucco: ”Il gioco lo faccio io” mugugnò. Poi si fece pensoso e disse: ”il leone ha... più muscoli, la leonessa ha una... borsetta”. “Che c’è nella borsetta?” “I piccoli leoni...” “E il papà leone c’entra?” “C’entra, c’entra... ma papà vuole la mamma tutta per sé… ma io sono più forte”. “Mi sembra che tu non la dici proprio tutta, qualche dubbio devi averlo, ma, dimmi, se papà leone c’entra con te, perché lotti sempre con lui? Potresti avere anche tu dei beni, sulla tua strada ne potrai trovare tanti.... se ti ci metti, mi sembri ben forzuto e pronto ad acchiappare...” “Forse con te, perché mi pare che il tuo piffero non sia minaccioso e mi fa venir voglia di vincere le Olimpiadi e di prendermi una laurea ad Oxford. Mi muovi il pensiero, pifferaio, ti seguirò ovunque tu andrai”. A questo punto, il pifferaio riprese il suo strumento e prima di suonarlo disse: ”Per concludere ciò che avete cominciato dovrete camminare dietro a me, io vi porterò in un luogo meraviglioso, è un’altra Città nella Città, dove i vostri genitori non vi riconosceranno più e penseranno di avervi persi nella montagna. Ma è solo perché non hanno ancora aperto gli occhi e gli orecchi, quando lo faranno vi ritroveranno più belli e vispi che mai e in questa città ci sarà posto anche per loro”. Dopo aver pensato: ”Se vi lascio soli in questo posto in cui nessuno sa più quel che fa, compreso il primo cittadino che non riesce neppure a stare ai patti, riuscirete solo a perdere la bussola e non combinerete nulla di buono”, cominciò a suonare e tutti i bambini e i giovani lo seguirono, affascinati ormai da quelle parole che uscivano dalla bocca del suonatore e che avevano sciolto dubbi, trasformato pensieri angosciosi in possibilità di esperienze nuove e soddisfacenti. Le dolci note del flauto trascinarono i bambini al limite della città. Cammina, cammina giunsero ai piedi di una montagna dove si aprì una grande porta: il pifferaio la oltrepassò e tutti lo seguirono. Solo un bimbo era rimasto indietro: uno zoppo che non era riuscito a tenere il passo con gli altri. “Pifferaio, amici, aspettatemi” implorava “non chiudete la porta, vengo anch’io”. Ma prima che potesse terminare la sua invocazione, la porta cominciò a chiudersi e il bambino pianse disperato. Poi alzò gli occhi e con sua grande sorpresa lesse un avviso che, seppur in caratteri gotici, era scritto in inglese, francese, tedesco e italiano: ”C’è posto anche per te, sarai tu a portare con te chi vorrà venire con noi”. Nel frattempo, nella città divenuta silenziosa, i genitori dei piccoli e dei giovani, dopo aver battuto inutilmente in lungo e in largo Hamelin e dintorni, si ritrovarono affranti nella grande piazza, teatro di giochi e baruffe dei loro figli, per cercare negli sguardi e nelle parole altrui qualcosa che desse loro almeno un filo di speranza. Ma l’assenza di quei visi paffuti, di quegli occhi ridenti o assorti, di grida, di giochi e di bronci improvvisi pareva a tutti incolmabile. A poco a poco la loro muta angoscia si sciolse in un coro a voci alternate. “Chi ci ridarrà i loro sguardi spalancati e amorosi?” “E chi ci aiuterà a riprendere la memoria della nostra infanzia? “E quale invenzione potrà mai sostituire le loro storie, le loro domande, che erano anche le nostre?” “Quale apparato potrà mai occupare il posto dei loro occhi fiduciosi? “E dei loro giochi avventurosi? “E della loro voglia di diventare grandi?” “E dei loro passi che rendevano lieti i nostri? Mentre nella piazza di Hamelin si svolgeva un dramma da teatro greco, il piccolo zoppo prese la strada del ritorno; era ormai pacificato perché il suo desiderio di ritrovare gli altri bambini e il pifferaio cresceva sempre di più e poi ora aveva un compito, lui, lo zoppo del paese: quello di condurre i grandi, che l’avessero voluto, oltre la soglia della montagna, i grandi che non lo avevano mai considerato. Quando entrò in paese, se li trovò tutti attorno che lo guardavano come fosse un re e pendevano dalle sue labbra e godevano delle sue trovate e delle sue invenzioni, tanto che a lui sembrava già di aver messo un piede oltre la porta della montagna e di aver accanto il pifferaio e gli amici.