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Per le strade era costretto a girare con una pezzuola legata alla bocca e poi, prima di entrare in casa, doveva bruciarla nel camino del suo laboratorio, urlando: ”Vattene via microbo can, sia dalla testa che dalle man”. La sua signora era arrivata a chiedergli con dolcezza estrema di far bollire i suoi arnesi da lavoro e di lavare con una bella saponata le zampe dei cavalli prima di ferrarli e di usare una pinza tiralingua per poter lavare i denti ai quadrupedi. A letto poi si doveva coricare con una tuta inamidata che gli impediva i movimenti e che lo faceva rimanere fermo nel letto come un baccalà. Appena osava accarezzare la sua signora, superando il fastidio dello scrocchiare della tuta simile ad una ingessatura, la bella signora urlava: ”Non contaminarmi!” E così s’era ridotto a sognare di vivere in una baracca dove si poteva rotolare a suo piacimento nel letto, mangiare cosciotti abbrustoliti nella cenere e tirare palle di fango ad una sagoma di cartone che aveva le fattezze di qualcuno che lui conosceva molto bene. Ma quello che più lo angustiava era vedere il suo bimbo crescere come in provetta. Non poteva permettersi alcun gioco tranne quelli puliti, come la ricomposizione dei puzzle della Ravensburger, dopo che questi eran stati disinfettati con alcool e lavati con sapone di Marsiglia. Il bimbo sembrava immerso in una salda d’amido, tanto era bianco e irrigidito e in più profumava di canfora, così da impedire a qualsiasi essere vivente sia con le ali che con le gambe di girargli attorno. Come caramelle gli eran concesse delle pasticche di clorofilla mentolata, tanto che i compagni pensavano si facesse scorpacciate di dentifricio. Quando invitava gli amici a giocare in casa sua, la signora si sentiva liberale per questo, il bambino era costretto a vedere i compagni subire un lavaggio accurato e una disinfestazione contro eventuali pidocchi, acari o scarafoni. E così, dopo alcune esperienze di questo tipo, i suoi compagni lo salutavano solo da lontano, sventolandogli una benda sterilizzata. Lovencraft, un giovanotto sui vent’anni, che ce l’aveva messa tutta per imparare a leggere e a scrivere, voleva infatti diventare scrivano del re, era stato poi criticato duramente dal padre, che, dopo averlo incitato per anni a diventare qualcuno, gli aveva poi detto, con palese invidia: ”Ma che ti impegni a fare? Leggere e leggere? Scrivere e scrivere? Non serve a nulla, l’importante è essere forte come io sono forte, acchiappare ragazze a destra e a manca come io acchiappo, farsi rispettare da tutti col terrore, come io mi faccio rispettare, insomma hai sbagliato tutto!” Il poveretto, invece di mandare al diavolo il suo genitore, s’era dunque messo in mente che ciò che aveva fatto con tanto impegno era tutto da buttare e non s’era più difeso e aveva pensato di diventare il più forte e il più sciupafemmine. Peccato che non gliene riuscisse una e stava fissato per ore a dire: ”Voglio una donna, voglio una donna, almeno una. Voglio essere forte, voglio essere forte”. Ma più si convinceva, più fuggiva dalle donne e più i suoi muscoli si afflosciavano. Diceva infatti di volere, ma in lontananza aveva il pensiero di non potere: solo l’incontro con una donna che gli avesse fatto venir voglia avrebbe potuto farlo uscire dalla sua impotenza. Una fanciulla, Hannah, bionda come il grano e sinuosa come un’anfora, aveva avuto passioni e amori in quantità. Ma il padre, i cui principi morali non contemplavano affetti e passioni, vedendo la prosperosa figlia dedicarsi troppo alla cura del suo aspetto per piacere ai giovani di Hamelin, aveva deciso di farla diventare una grande signora e l’aveva costretta a lasciare il suo lavoro di cameriera presso un ostello per iscriverla ad un corso accelerato di “amor cortese ed educazione spirituale”. La fanciulla a malincuore aveva cercato di seguire le lezioni di danza soave, di cucina curtense e di morale puritana, ma era stata bocciata. Al che il padre, che aveva convinto anche la madre a stare dalla sua, a pranzo le gridò: ”Tu con me non mangerai più, mi fa schifo vederti alla mia mensa”. E la fanciulla da quel giorno s’era messa a masticare nello sgabuzzino dei gatti. Ma non si può dire che mangiasse. Tutto ciò che metteva in bocca le era indigesto e ben presto non aveva mangiato più. Aveva deciso di diventare la più magra e la più dura di Hamelin. Così le sue prosperose forme erano diventate delle formine steccolose e il suo bel viso aveva assunto l’aspetto rugoso di una vecchia. Jorghenwar, che da infante era stato bello come il sole e dolce come la torta Sacher, ad un certo punto aveva cominciato a far volare tutto dalla finestra. Come mai? La madre, donna ricca e orgogliosa, se l’era portato a casa piccino dalla sua donna di servizio che aveva avuto dieci figli e che, vedendo la sua padrona senza prole, libera da ciucci e pannolini, glielo aveva consegnato perché lo facesse diventare suo e lo crescesse nella sua casa tra gli agi. Ma invece di crescere il figlio, la donna s’era fissata che l’avesse rubato alla sua fantesca, che quel figlio dunque non avrebbe mai potuto essere suo perché non avrebbe mai potuto dimenticarsi delle sue origini, perché queste sono sacre e inviolabili e sono come il calco per la creta, lo stampo per la pasta, l’imprinting per i pulcini e per i piccoli d’uomo. Così che Jorghenwar, che avrebbe voluto solo stare bene con la nuova famiglia, non fu mai certo di avere una madre e un padre e non faceva altro che giocare a nascere ogni giorno da una verza che chiamava: “Mamma”, pensando d’essere un mollusco polmonato con un corpo allungato e viscido come una lumaca. Arrivato a tre anni incominciò a fare l’obiettore: scoprì che il biberon oltre ad essere messo in bocca poteva essere fatto volare dal balconcino barocco perché chi glielo offriva ormai gli andava di sghimbescio, e così faceva con la minestra che preferiva lanciare a cucchiaiate o a sputacchi dalla finestra o con le lasagne ricce che dapprima pettinava e poi scaraventava sulla testa di chi passava perché se ne servisse a mo’ di parrucca. Disfaceva poi i letti appena fatti, tagliava i suoi abiti a fettuccine e a linguine, bruciava giochi e regali, attaccava ai vestiti dei suoi maggiori dei petardi alla Pietro Micca, così da vederli balzare urlanti dalle sedie Luigi XV o dalla dormeuse dalle spalliere a riccioli e volute. Quando poi comiciò ad andare a scuola continuò la sua carriera di obiettore di coscienza: segava con precisione di chirurgo quaderni e libri, giocava a fioretto con matite e penne e diceva che lui non aveva nome e che era nato da solo e che da solo si era dato la vita. Un altro bambino, Lionel, aveva rinunciato ai successi a scuola, agli sport, agli amici, anzi, trattava questi a calci e pugni perché aveva paura. Qualcosa lo minacciava. Parlava solo di animali, si sentiva un leone che combatteva sempre con tori, elefanti, rinoceronti e a volte, nel sonno, li chiamava “papà”. Invece che interessarsi ad aver i benefici che il padre aveva e altri ancora, voleva strappare corna, zanne, proboscidi e così perdeva ogni occasione per avere successo. Eppure, nonostante tutto ciò, gli abitanti di Hamelin avevano continuato la loro vita come se niente fosse, facendosene un baffo delle loro angosce, anzi, scacciandole dalla porta e vivendo come se niente li potesse mai toccare. La pasticceria aveva aperto ogni mattina e la signora Zabalionem mostrava ugualmente il suo sorriso a mezz’asta, un po’ tirato e stiracchiato; sua figlia, pur sognando una notte sì e una no di camminare sulle tombe, diceva che il mondo andava così e che non si poteva fare niente. Il signor Ecolamer, pur vedendo appassire la vitalità di moglie e figli, fisso nella sua purezza ecologista, faceva discorsi ai cani e ai gatti, incitandoli alla rivolta. Questi, scocciati, dopo diversi “bau bau e miao miao” di avvertimento gli si erano avventati contro, lasciandolo tutto pesto a fare i suoi discorsi sulla collina. Pur tuttavia egli non si era scoraggiato perché pensava di rinascere ogni giorno fino a quando cani e gatti avrebbero capito. Intanto cercava sollievo a un’ansia crescente che gli prendeva la gola buttandosi ogni mattina nel fiume che, diceva, lavava ogni pensiero triste. La signora Ecviner pur vedendo il marito allenarsi per ore al tiro al piattello aveva deciso di candeggiare il piattello e di appendere il figlio, sempre più bianco, al filo della biancheria perché così, esposto al sole, avrebbe ripreso colore e si sarebbe disinfettato meglio. Alle malelingue che la criticavano diceva: ”Sono pura come il bicarbonato di sodio!” Il giovane Lovencraft s’era ridotto a parlare solo di donne e d’eroi, ma non combinava più nulla e, pur girando torvo per il villaggio, diceva a tutti che lui era l’uomo più potente della città. Suo padre continuava a predicare che i figli non sono mai forti come i padri e questa era una legge di natura e andava rispettata. Hannah aveva cambiato compagnia: s’era ridotta a parlare solo con le oche e a mangiare chicchi di frumento e il padre aveva trovato di che consolarsi perché le oche avevano un incedere regale e al tempo dei Romani stavano a guardia del Campidoglio. I genitori di Jorghenwar pensarono dapprima che il figlio fosse affetto da saturnismo per via delle gengive grigiobluastro e non pensarono mai che ciò fosse dovuto alle scorpacciate di inchiostro che il figlio si faceva, invece di riempir pagine di bella scrittura con pennini a gobbetto o a campanile. Poi incominciarono a leggere la cabala per vedere nel futuro che sarebbe successo al loro quasi erede che faceva l’inferno in terra.. La cabala disse che, dopo aver rotto tutti i cristalli della casa, aver incendiato tutti i granai dei vicini, si sarebbe placato. E allora non lo fermarono più e decisero, allegramente, si fa per dire, di lasciarlo fare, così si sarebbe sfogato: “il bubbone” si dissero “quando scoppia guarisce”. Peccato che Jorghenwar non fosse un ponfo! Per non dire di Lionel che ora girava per la città con mestoli e forchettoni, trivelle, scalpelli e mazzuoli e li usava come armi d’attacco perché si sentiva circondato ovunque da nemici che lo spiavano. I genitori avevano pensato bene che il loro bimbetto si stesse semplicemente allenando a difendersi dalle insidie della vita e dal mondo che lo circondava. Questa la situazione apparentemente felice di Hamelin prima dell’invasione: tutti sembravano vivere senza pensieri, ma ciò che turbava gli animi, scacciato dalla porta sembrò rientrare dalla finestra sotto forma di topi. Questi avevano avuto fiuto: in una cittadina in cui le paste non eran più paste, il cibo non era più da tutti gradito, la ricchezza era per alcuni disattesa, certe spose non sposavano più, alcuni ragazzi non sapevan più che dritta prendere, dei bambini vivevano l’inferno o facevano l’inferno, e dove nessuno procurava più zibellini ai re o difendeva campi, abitazioni e mura perché il lavoro s’era tinto d’accidia, ecco, lì avrebbero potuto abitare, perché i topi abitano nelle città non ben abitate, dove la difesa è divenuta un mero optional da prendere prima o dopo i pasti solo dopo un’eclissi di sole o prima di una nuova glaciazione. E vennero dunque e occuparono tutto: solai, terrazze, fienili, dispense e perfino culle. E i piccoli invece di sognare tenerissime balie alla Maupassant e rosse fragole incominciarono ad avere sonni agitati, popolati da enormi roditori che, a volte e, purtroppo, in realtà, assaltavano il loro letto e aggredivano le loro tenere gole. Pianti, lacrime e svenimenti assalirono le mamme e le nonne le quali cominciarono a rimpiangere i bei tempi passati. I topi trovarono molto gustosi i cibi preparati dalle signore di Hamelin, così che all’ora di pranzo prendevano posto a tavola e razziavano tutto con una certa predilezione per i formaggi olandesi e per le scamorze italiane. I consiglieri comunali approvarono varie leggi che affissero per le strade e le piazze, ma i topi mangiarono anche queste e continuarono a razziare tedesche prelibatezze. Anche l’idea di milioni di trappole fu scartata perché assurda. La trovata di far circolare gatti transgenici, made in Taiwan, con la grinta delle tigri, la forza del leone e gli aculei dei porcospini, fece ridere i topi che già si erano mangiati tutti i felini in circolazione ed erano arrivati a ridurre a carcasse gli animali dello zoo di Hamelin. Anche i gatti importati e quotati in Borsa avrebbero dunque fatto la stessa fine. La popolazione furibonda si diresse in massa verso il Municipio e urlò contro il sindaco tutto il vocabolario Zanichelli delle invettive. Il sindaco si trovò squassato da un tremore di tipo parkinsoniano e tentò di difendersi consigliando una dieta a base di paté di topo. Ma non poté finire perché fu preso d’assalto da mille roditori che volevano pasteggiare con il suo fegato e la sua coratella. Sciammanato, con l’unico capello rimastogli dritto in piedi, udì bussare alla porta. Un tipo originale, mai visto prima, gli si presentò dinnanzi: portava un cappello ampio a forma d’ombrello tutto impiumato, i capelli gli scendevano a trucioli sulle spalle, il suo collo era ornato da una coccarda bicolore mentre giacca e calzoni di raso erano a scacchi gialli, verdi e rossi e il mantello era di bianco zibellino che avrebbe fatto gridare: ”Nudo, nudo” al signor Ecolamer.
(continua...)