Fiabe

le fiabe di Angela Cavelli
prendono spunto da quelle classiche

Quando le parole degli altri sostituiscono la propria esperienza, è meglio non ascoltare e rinchiudersi nel cesso.
di Angela Cavelli

Fiabe

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Venerdì 18 Giugno, 2010
Il principe Berto (1) e la principessa Arcadia (2) lasciarono il loro castello e con la carrozza si recarono per il viaggio di nozze a Lunatantum, noto luogo di villeggiatura, dove il re, padre di Arcadia, aveva dei possedimenti e che distava circa cinquanta miglia dalla loro dimora. Al loro passaggio i sudditi del regno di Carabas si scappellavano per salutarli e augurare loro un felice inizio.
Il gatto con gli stivali rimase nel palazzo principesco con la carica di consigliere politico ed economico del regno del principe di Carabas e veniva riverito da tutti come un grande signore.
La principessa Arcadia durante il viaggio non fece altro che sognare di diventare una grande regina onorata da tutti perchè il suo sposo avrebbe ingrandito senz’altro i suoi possedimenti e così tutti i potenti della terra sarebbero stati loro ospiti.
“Che fanno mai le regine?” si chiese “oltre a crescere i figli come ha fatto mia madre?”
“Curano gli affari con il loro sposo” si disse. “E allora mi alzerò alle cinque e così avrò modo di fare una accurata toilette e di scrivere lettere a tutti i principi e re d’Europa e non mancherò di tenere i rapporti con le dame di compagnia, così potrò sapere tutto ciò che succede nelle corti. I miei suggerimenti faranno grande il nostro regno. Ecco, questa sarà la mia regola, ma ora è meglio tornare all’oggi. Al mio ritorno avrò molto da fare nel preparare i ricevimenti, nel disporre gli inviti e i regali da offrire agli ospiti.”
Il ricordo del sontuoso pranzo di nozze e la ricchezza dei doni ricevuti, tutti si erano resi disponibili a tributare loro grande onore, erano tali che facevano ben sperare Arcadia: insomma un futuro radioso si apriva davanti a lei e a Berto, almeno così pareva.
Quel giorno il sole era più sole degli altri giorni, e quando arrivò la lucida luna sembrava proprio che splendesse solo per loro.
E così Arcadia si addormentò con il sorriso sulle labbra.
Quando ella si svegliò, Berto fece fermare la carrozza e invitò Arcadia a cena nella locanda a cinque stelle “The Sun-King” (3). Arcadia strabiliò nel veder mangiare il suo sposo: otto galline novelle, tre salamotti della Val Torta, due chili di lardo profumato, sette torte farcite e otto pinte di buon vino. La fanciulla convenne che il suo sposo godeva di un buon appetito.
Raggiunsero la camera preparata per loro. La prima cosa che il principe Berto fece fu di togliere dal baule un impasto di sapone odoroso fatto arrivare apposta da Marsiglia, mise poi dell’acqua di rose in un bacile d’argento e bruciò nel camino legni fragranti e infine, a causa della sua antica frequentazione di car-grill, si recò nei bagni per soli uomini per lavarsi e profumarsi. Anche la sposa fece altrettanto, ma in un bagno di marmo rosa con intarsi di opale del Messico e, dopo essersi specchiata in un ovale d’argento e aver esclamato: ”Come sono bella!”, apparì nella camera nuziale dalla quale si alzarono effluvi profumati che facevano invidia ai fiori del giardino del re di Chanel.
Non solo, prima di coricarsi nel letto di piume con la sposa, Berto si fece portare tutte le rose del giardino e con i petali inondò il regale talamo.
Mai notte fu più dolce e mai aria fu più profumata.

Il giorno dopo prima di scendere per la colazione nella caffetteria della locanda, Arcadia vestì il suo principe con una vestaglia intarsiata d’oro e brillanti, dono del re, e la fanciulla si guarnì di una veste da camera di pizzo Chintilly che rendeva preziosa la sua chiara epidermide.
Berto si mise al tavolo dopo aver fatto accomodare Arcadia, ma, poichè era affamato, stava per buttarsi sulla tazza di caffè d’orzo, quando s’accorse che Arcadia stava attendendo che lui la servisse per godere insieme della lauta colazione. Ormai Berto pensava alla grande, non era più il povero figlio del mugnaio, ma ancora alcune sue condotte svelavano che era un parvenu. Solo che la sua Arcadia era talmente innamorata di lui che non vedeva la di lui rozzezza, ma solo le di lui qualità.
E così insieme sorseggiarono la scura bevanda e incominciarono a raccontarsi i sogni che avevano fatto.
“Ho sognato che il Papa ti metteva la corona ferrea in testa durante una cerimonia nella cattedrale di Notre Dame. Eri felice, poi tu prendesti una corona di rose e mi cingesti la testa.”
Mentre la fanciulla porgeva a Berto le ciambelle al cacao sommerse dallo sciroppo d’acero, la Charlotte di mele, quella di pesche e infine quella russa con crema inglese e panna montata, questi raccontò che aveva sognato il loro castello come fosse disabitato: lei lo aveva vestito con una regale armatura e lui era andato a combattere un mostro invisibile. Quando era tornato, il castello s’era tutto illuminato ed era ritornato brulicante di vita.
“Sarai stanco dopo un tale sogno e anche affamato” sussurrò dolcemente Arcadia e porse a Berto degli spiedini alla turca e dei cefaletti aromatizzati.
Tornati dal viaggio di nozze i due sposi si insediarono nel castello che era stato dell’orco e subito ebbero mille impegni da onorare perchè Berto, sposando la principessa, era divenuto principe di Carabas e aveva ora incombenze di governo.
Arcadia riceveva gli ospiti con grande dignità e ricchezza e così la notorietà dei loro ricevimenti passò i confini del regno. Al loro castello arrivarono conti, marchesi, dame bellissime e portavano doni d’oro e d’argento. I musici ogni sera rallegravano con cembali e arpe i pranzi dei loro signori. In quelle occasioni il principe Berto, consigliato dal gatto con gli stivali, si dava da fare per comporre alleanze così che il suo regno potesse fiorire sempre di più.
ll gatto con gli stivali veniva sempre invitato alle feste e sedeva alla destra del principe e godeva un mondo degli onori che gli riserbavano e dei pranzi luculliani. Per lui era sempre a disposizione un salmone intero fatto venire apposta dai mari del Nord. Il gatto era un grande oratore e intratteneva gli ospiti con storie bellissime che attiravano e interessavano i principi del regno perchè da lì traevano indicazioni politiche per i loro affari di stato. Alcuni addirittura stavano a sentirlo fino all’alba.
E così Berto, grazie all’avvedutezza e al saper fare del gatto, concluse un grande affare: aggiunse ai suoi possedimenti le terre semi deserte di Caledonia e Pollerania che aveva acquistato dai principi di Canossa e le rese fertili e rigogliose. Il suo regno si stava ingrandendo sempre di più.
Avvenne che, dopo sei mesi di questa vita intensa e soddisfacente, il principe Berto incominciò ad invidiare la grande competenza del gatto. Si mise a guardarlo con cattiveria, immaginando chissà quali intrighi e, vedendolo muoversi sciolto tra i più grandi principi e giudicare gli avvenimenti politici, culturali ed economici, concluse che nessuno poteva permettersi di essere più interessante di lui. Invece di imitarlo, imparando la sua arte dei rapporti e la capacità di trattare con tutti, dimenticando come questo gli sarebbe stato di grande beneficio, divenne ogni giorno più nero e pensieroso. Ogni volta che ai ricevimenti il gatto veniva elogiato per la sua competenza negli affari e per saper intrattenere alleanze e fare contratti, Berto veniva preso da una strana inquietudine a cui seguivano attacchi di singhiozzo irrefrenabili che lo facevano saltare sulla sedia per ben un metro e poi ricadere disastrosamente. Tanto che ben presto si dovette ordinarne delle nuove e rinforzate dal sediaio De Padova.
Berto tentò di scacciare quei sentimenti che lo facevano soffrire, ma questi, scacciati dalla porta, entravano dalla finestra. E così una notte sognò un profeta eretico di nome Celestino che gli diceva: ”Giustificami perché vuoi diventare ancora più ricco e potente e ingrandire il tuo regno. Non c’è necessità in ciò.”
Nei giorni che seguirono, Berto si fece sempre più lugubre e silenzioso e la sua pelle assunse un colore verde olivastro che impensierì la sua sposa. Ma a nulla valsero le tisane alla calendula che Arcadia gli preparava e le carezze con cui cercava di allietarlo. Ormai l’invidia per il gatto con gli stivali lo rodeva a tal punto che non riusciva più né a mangiare, né a dormire, né a seguire gli affari di stato. Questa situazione era per lui talmente insostenibile che lo faceva pensare troppo e male. Pensa e ripensa, in un pomeriggio, mentre era disteso sotto l’albero di fico, ebbe una specie di illuminazione e riuscì a superare la sua angoscia costruendo una bella teoria: non aveva forse fatto già molto per il suo popolo e il suo regno?
Era principe e sposo, ora poteva riposare: aveva raggiunto ciò che desiderava e dunque poteva fare altro.
“Basta così” si disse “è bene non desiderare altro.”
Questo fu per Berto il momento inaugurale dei suoi guai perchè fece l’unica cosa che non doveva fare: rinunciare al pensiero, al desiderio.
Poi passò all’azione, dicendosi che tutti i suoi problemi sarebbero svaniti se avesse scacciato il gatto dal suo posto. Non era forse lui che lo aveva iniziato alla ricchezza?
Infatti lo convocò, ma non lo fece neppure sedere nella stanza della corona, bensì lo trattenne sulla soglia e gli urlò: ”D’ora in avanti non starai più a corte, te ne andrai a vivere nella casa di riposo per gatti, là dove ci sono i tuoi pari. Non ho più bisogno di te. Tutti i miei problemi sono iniziati con te. Sei stato tu a cominciare! Se non mi avessi eccitato e aiutato a diventare ricco e marchese, io ora non avrei seccature. Quando mai non sono rimasto al mulino! vivrei lì con i miei fratelli dell’acqua che vi arriva e della sola farina del mio sacco! Starei nel mio brodo e senza pensieri....”
“Mio principe, mi sembra che tu stia sbagliando strada..., l’autarchia è una brutta bestia!” Il gatto ben sapeva che quegli sproloqui non erano che autoinganni e così pure la nostalgia per quel mitico mulino che, oltre a tutto, non apparteneva a Berto.
“Non voglio neppure ascoltarti, vattene dal mio regno..”
“Ossequi alla signora”: così rispose il gatto e se ne andò via molto rammaricato per l’ingratitudine del principe, divenuto stolto per effetto dell’invidia che non lo faceva più pensare. L’ex consigliere del principe di Carabas invece di andarsi a rinchiudere nella casa di riposo decise di fare il giro del mondo in ottanta giorni. Senz’altro avrebbe trovato qualcosa di interessante da fare, così avrebbe potuto rivedere il sultano Ben Adir e il Maraja di Galipur che aveva conosciuto e che lo stimavano molto perché aveva loro consigliato di far profonde buche nel deserto dove avrebbero trovato un oro liquido e scuro che li avrebbe resi ricchissimi.
Berto poi convocò Arcadia e così le significò: ”Ti comunico le mie decisioni. Tu, mia principessa, ora potrai fare quello che vuoi, saremo liberi entrambi dalle nostre obbligazioni. Potrai dedicarti alla “dream music” distensiva e persuasiva che ti darà serenità interiore e armonia personale e aiuterà la tua meditazione o, se meglio credi, ai quiz, alle cabale, ai trobadores e ad angeliche letture. Da parte mia, non ho nessuna voglia di incancrenirmi con gli affari di Stato che mi obbligherebbero ad amministrare la giustizia, ad emanare leggi, a studiare come rendere più fertili i campi e ad operare perché il mio regno prosperi con alleanze e trattative. Non ne val proprio la pena. E poiché il regno è mio, lo gestirò come voglio io. Sarò principe solo di nome e non di cognome o di fatto. Sarò “il principe povero” che più povero non si può. Tu avrai quel tanto da vivere e basta. Del resto che te ne fai di innumerevoli vesti d’argento e d’oro? Una veste verde pisello o verde mela con riporti azzurro angioletto ti basterà. Meglio esser poveri e vivere in completa, seppur elegante, umiltà, la quale ci renderà cari ai nostri contadini che sono anch’essi poveri, ma onesti. Tutto sarà rinnovato. Si sta preparando un’era nuova: il Sole butterà via i Pesci e farà il bagno nell’Acquario...la mia sarà una rivoluzione pacifica: nel mio regno tutti saranno amici e in pace, la natura gli animali, il tempo. Saremo felici e trasparenti, puri, poveri ed equilibrati. Ebbene, la corona potrai usarla come vaso di fiori, il trono lo porteremo al museo della “civiltà contadina.”
Ad Arcadia caddero le regali calze, le quali rimasero ammosciate ed arrotolate intorno alle sue finissime caviglie. Guardò completamente interdetta e stuporosa il suo principe e poi ebbe il sopravvento il desiderio di mettere il suo sposo, tanto roseo e bello, sotto salsa verde, tra aceto, aglio e prezzemolo. Ma forse sarebbe stato meglio in salsa rosa!
Le prime parole che le vennero alla bocca furono: ”Mio principe, hai messo il cervello nel frullatore? Hai abdicato all’uso della ragione e ti sei ridotto a fare il barbaro? Hai forse invitato a corte quel maledetto Celestino che, con le sue profezie, farebbe andare il latte alle ginocchia alle nostre mucche e renderebbe aceto il vino delle nostre vigne?”
Ma poi il suo animo troppo gentile ebbe il sopravvento e non osò controbattere, e rimase con la bocca spalancata e gli occhi sbarrati come fosse stata sorpresa da una nube di gas nervino.
Il principe allora cercò di ignorare, ma non gli riusciva facile, la sposa sotto sincope e continuò: ”Questa sera ci sarà il ricevimento a cui parteciperà il Re tuo padre. Ebbene il gatto con gli stivali non ci sarà, mi è venuto a noia e non sarà più tra noi. L’ho mandato a riposare: da questa sera cominceremo a risparmiare, già ho speso troppo per le sedie! Saremo equilibrati al basso e poi non voglio accanto nessuno che mi disturbi con i suoi progetti di ricchezza ed espansione. Troppo lavoro! Non voglio nulla da loro!”

(continua...)
Venerdì 1 Aprile, 2011
[...]

Arcadia non parlò e rinunciò a pensare e si sforzò di ricacciare tutto ciò che le veniva alla mente “perché” si disse “lei ora era sposata al suo principe e non le restava che obbedire, essendo la sua sposa.” Eppure una grande rabbia la prese e si sentì triste e inquieta perché, malgrado i suoi sforzi, il pensiero che il gatto avesse sempre onorato la loro casa e li avesse aiutati ad aumentare il loro potere, si faceva sentire. ”Ci penserò domani, adesso non ho tempo” si disse. E così con improvvisa frenesia si recò a dar ordini alla servitù per preparare il pranzo di gala che dava in onore del re suo padre. La preoccupazione del marito di risparmiare sui cibi divenne la sua e così si accontentò di scegliere bevande e carni scadenti e di risparmiare sul vino. La serata ebbe un inizio felice: il re e la sua corte vennero accolti da Arcadia e da Berto e furono accompagnati ai tavoli. Purtroppo durante la serata Arcadia si sentiva preoccupata di tutto: il vino sarebbe bastato? come erano le carni? E la cotoletta di soia, piatto povero inventato dal suo sposo, sarebbe risultato gradito? Le pareva che tutto fosse diventato difficile e penoso. Per mille volte si alzò dal suo posto e andò a controllare che tutto fosse in ordine e così agli ospiti venne il dubbio che la principessa avesse mancato nei loro riguardi. Inoltre, durante la serata, i musici, mal serviti di cibo e di vino, non si disposero a rallegrare la cena, ma suonarono in modo stridente nenie nostalgiche che fecero addormentare più d’un ospite; qualcuno finì addirittura con la testa nel pasticcio di carne che aveva un vago sentore di uova marce. Berto, a causa del vino poco fine, vedendo che gli ospiti non onoravano la sua tavola ed erano inoltre annoiati per la mancanza dei racconti del gatto, incominciò a offenderli e a gridare: ”Se non mangiate io mi riterrò offeso!” E poi incominciò ad enucleare la sua teoria bislacca. “Io, Berto, principe di Carabas, Pollerania e Caledonia, io, che sono il più ricco del regno, vivrò come il più povero”. E così per tutta la sera raccontò tristi scenari su come le ricchezze avrebbero portato buchi nell’ozono, sciolto i ghiacci artici ed antartici, portato iceberg grandi come una montagna sulle rotte del Titanic, fatto alzare il livello delle acque, procurato terremoti e maremoti e che dunque era il caso di cambiare strada. Tutto infervorato, fece degli esempi bislacchi e raccontò che di tutte le sue ricchezze, descritte da lui con ogni particolare, dai gioielli di Arcadia al suo castello, dalla servitù ai forzieri ricchi d’oro non se ne sarebbe fatto più niente, perché aveva deciso d’essere il principe più povero del mondo. Gli invitati, soprattutto il re, credettero che Berto si fosse ubriacato per il vino ignobile e continuarono a intessere alleanze tra loro. Quando il principe poi si sbrodolò con una zuppa di cereali fece ridere tutti gli astanti, soprattutto il re. Un invitato, il conte Ulderico de’ Cicoria, nel sentire le ricchezze del regno di Carabas, era diventato verde come un ramarro, poi, riavutosi, intuendo l’occasione propizia, scrisse sul suo quadernetto di appunti tutto l’elenco dei tesori del principe e incominciò a sogghignare alle sue spalle. Il re e gli ospiti, molti dei quali accorsi per sentire parlare il gatto, incominciarono a sentire la mancanza di quel grande conferenziere e lo richiesero a gran voce. Ma Berto li zittì con superbia, dicendo che il padrone era lui e che del gatto se ne infischiava.. Altri, invece, non onorati dal padrone di casa e sempre alle prese con una petulante principessa che chiedeva loro: ”Perchè non mangiate? Mangiate che vi fa bene. E’ buono il vino? la carne è ben cotta?” si alzarono furenti e amareggiati, ben decisi ad andarsene. Sulla soglia del castello furono raggiunti dai pianti di Arcadia e dalle urla di Berto il quale proclamava :”Andatevene pure, non ho bisogno di voi.” A questo punto i principi convenuti decisero di rompere le alleanze che avevano stipulato con Berto: l’avrebbero lasciato al suo miserevole destino. Ulderico de’ Cicoria, invece, rimase perchè voleva sapere ancora di più sui possedimenti di Berto. Così gli si avvicinò e gli disse: ”Che ingrati! girano le spalle a un principe di così grande lignaggio e intelligenza e che ora ha aggiunto ai suoi tesori la perla più bella, la virtù della povertà.” Berto fu dapprima sorpreso di quel giudizio, ma poichè avvalorava la sua tesi, lo accettò. Il re, vedendo gli ospiti andarsene, Arcadia frignare, il principe urlare e avendo pesantezza di stomaco e bocca amara, si alzò, lamentando che non aveva mai visto un disastro tanto indegno. Uscì furente dalla casa della figlia e se ne ritornò al suo palazzo a bersi una regale limonata calda, pensando che Arcadia e suo genero non erano degni di diventare suoi eredi. I risultati di quel disastroso pranzo si fecero subito sentire. I principi mandarono disdetta dei patti, il re, ritenendo che sua figlia fosse stata una ingenua cretina e Berto uno stolto, preferì marcare la sua estraneità a tali insulsaggini, non ricevendo nè l’una nè l’altro alla sua corte e così Berto e Arcadia rimasero a tu per tu, soli. Arcadia, tanto dispiaciuta per l’esito infausto della cena, incominciava a rendersi conto dei disastri che il progetto bizzarro dello sposo procurava e così parlò: “Non ti rendi conto che i nostri invitati e il re mio padre ti hanno deriso per quanto tu hai detto? Tu ti umilii in codesto modo e umilii me, tua sposa. Non così desideravo la nostra vita in comune, non amo essere degradata e villipesa.” “La perfidia umana è grande, ma la mia umiltà è tale che io non ne sono colpito, anzi godo d’essere così trattato in nome del mio principio di povertà dal quale io dedurrò tutto. Io sono superiore a tutto ciò. Tutto ciò che è povero sarà buono, tutto ciò che non lo è sarà male e da me inviso. Io sono un principe che disdegna la ricchezza e il potere, sono un principe-non principe. ” “Se sei un principe non puoi essere un non principe e dunque hai da governare. Chi non governa non è un principe. I colpevoli aspettano di essere giudicati, le leggi sulla scuola, sui mass media, sulle opere pubbliche vanno emanate altrimenti tutto si sfascerà. Così neppure si governano le galline che per fare “co- co” e far le uova han da mangiare tutti i giorni, e bene.” “E noi ne faremo a meno” rispose il principe. “Ma se non permetti la costruzione di una nuova diga e di nuovi canali e non rimetti in sesto gli argini dei fiumi, le terre non avranno acqua durante la siccità e ne avranno troppa durante il periodo delle piogge e i contadini non potranno avere raccolti. La terra non darà più frutto.” “E allora in nome della mia e loro povertà mangeranno carne di vitella e d’agnello.” “Ma anche questi han da brucar l’erba, altrimenti non si sosterrebbero.” “E allora vendiamo le terre a chi voglia governare e noi vivremo, poveramente, di rendita.” “La povertà non rende, ti sbagli, non saresti più il principe che ho sposato; la tua caduta mi fa inciampare e tu così sei per me come un fattore che non fa fatti.” “Eppure tutto è così semplice, anzi, semplicissimus: tutto ciò che avrà a che fare con la ricchezza sarà da me rigettato. Va nella tua stanza, donna, che ne sai tu degli affari degli uomini? Non sai tu che Cesare fu ucciso da Bruto perché ambizioso? Meglio non esporsi a tali rischi, la povertà è facile e rende solidale gli uomini nel pianto.” Arcadia allibì e decise di svenire. La principessa fu accompagnata nella sua stanza. Il principe Berto sembrò commuoversi alla vista del pallore della sua sposa così combinata e le stette vicino fino a che ella rinvenne. Arcadia cercò con i suoi abbracci di far rinsavire il suo sposo, ma questi non volle parlare perchè trovava che la sua soluzione fosse eccellente, anche se non si sentiva felice. Del resto, così si giustificava, non aveva mai creduto fino in fondo che sarebbero vissuti felici e contenti. Qualcosa bisognava pur sacrificare! Quella sera Arcadia aprì gli armadi ricolmi di vestiti splendenti e li contemplò. Che ne avrebbe fatto di tutto quello splendore, visto che il marito ora preferiva gli stracci e che gli amici se ne erano fuggiti dalla loro casa? “Rimanderò ogni decisione” si disse “si sta facendo sera” e se ne andò nelle cucine regali per ordinare il parco pranzo a base di cardi fritti, minestra di crusca e semi di girasole.

(continua...)
Venerdì 1 Aprile, 2011
[...]

Quella notte si svegliò alle quattro tutta intristita, probabilmente perché aveva lo stomaco vuoto e il fegato a pezzi. Da un vaso prese una margherita e incominciò a sfogliarla: ”Sono una signora o non sono una signora? Sono una principessa o non sono una principessa?”, ma neppure la margherita potè dare un responso perché l’ultimo petalo era solo un mezzo petalo. Una grande angoscia la prese. Che ne sarebbe stato di loro e dei loro sudditi? E dei figli che aveva tanto desiderato? Decise allora di farsi forza e di parlare l’indomani al principe. “Perdonami mio principe, ma i figli che avremo, che abbiamo tanto desiderato, che futuro avranno senza scuole, istitutori, tutor, mercati e mercanti, vie della seta, del sale e dello zucchero, teatri, televisori, antenna parabolica, libri, campi, amici, terre da governare? Non saranno che dei poveri miseri.” “Figli? In nome della povertà avremo solo mezzo figlio.” “Mezzo figlio? Ma come è possibile?” “Certo, dovrà essere talmente magro e scheletrito da non fare invidia a nessuno, così che nessuno potrà dire che è figlio di principe.” “Questo poi è troppo. Vada per i cavalli mezzo rincoglioniti, per i servitori a mezzo servizio, per la dispensa mezza vuota, ma mezzo figlio, mai! La tua crudeltà dunque giunge a tanto?” “Non la mia crudeltà, ma il mio principio di povertà, cara!” “Sia anatema!” urlò Arcadia. “Con l’aiuto del re mio padre il nostro letto sarà diviso in due, il nostro castello, le scuderie, gli ammennicoli, i soprammobili tutto sarà diviso in due, io mi farò vanto d’essere la principessa più spendacciona del regno. Il mio mezzo castello sarà sempre illuminato a giorno e canti e balli lo allieteranno, alla faccia del bicarbonato di sodio e del tuo principio di povertà! -Carpe diem- sarà il mio motto!” Così disse Arcadia e così avvenne. Mentre l’ala sinistra del castello divenne lugubre e triste, covo di barbagianni e cornacchie, dove gli arazzi erano stati sostituiti da mistici pannelli infilzati di chiodi o coperti da filari di pastiglie al mirtillo, e dove il merlo indiano gracchiava: ”Soffro, dunque sono”, l’ala destra pareva il regno del lusso e dell’abbondanza: porte dorate, tende di pizzo, arazzi sui balconi ingentiliti da piante ricercatissime e rare. All’inteno era obbligo un festeggiamento continuo che non doveva mai terminare, tanto che servi e musici erano spesso preda di esaurimento nervoso. Arcadia cercava con cibi raffinati, rosolii delicatissimi, abiti splendenti e amici scervellati, il cui obbligo era d’essere sempre allegri, di dimenticare la sua sventura. Però, per quanto facesse, non poteva certo ignorare che era la sposa sventurata del principe Berto. Allora cercava consolazione nel famoso Limoncino del Perù che si faceva portare dalle lontane Ande. Intanto Berto, solo e inacerbito, meditava come condurre avanti il suo progetto. Poiché da tempo non riuniva più in assemblea i suoi dignitari e consiglieri, il regno era in rovina. Decise di parlare al popolo che senz’altro avrebbe approvato il suo progetto. E così convocò tutta la popolazione del reame e presentò le sue decisioni: “Cari sudditi, io, vostro principe, ho deciso di donarvi la cosa più importante che esita!” Il popolo, costretto dalla carestia di quei mesi a vivere di poco se non di nulla, pensò che finalmente il principe avesse deciso di dar mano alle riforme che aspettavano da mesi, così che le terre avrebbero ricominciato a prosperare e gridarono: “Urrah!” “Ecco, cari, io, principe illuminato, vi insegnerò la virtù che sola vi farà felici, vi educherò alla povertà.” Un lancio di forche, badili, zappe, secchielli, martelli e seguenti investì il povero principe che dovette ritirarsi nella torre Nord del castello a masticare trifoglietto. Purtroppo neppure questa disavventura ebbe il potere di far ritornare sui suoi passi Berto. Intanto i principi dei paesi vicini, capitanati da Ulderico de’ Cicoria, decisero di appropriarsi delle terre del principe di Carabas, visto che la popolazione meditava la ribellione, che l’esercito era stato mandato a contare le stelle e le guardie del principe erano intente a pettinare i gatti del reame. Il castello poi, senza più servi, artigiani, governanti, dame, guardie, era invaso dai porci che si nutrivano delle perle e dei dobloni del principe che voleva essere povero. Quando i conquistadores arrivarono nella città dove sorgeva il castello e iniziarono a incendiare le case, Berto, vedendo i bagliori di quel fuoco che sempre più guadagnava terreno e presto avrebbe lambito il castello e magari abbrustolito i suoi abitanti, si ricordò di quando le sue budella bruciavano per la fame e ritornò in sè. Richiamato da alcuni contadini che gli erano rimasti amici, incominciò a rendersi conto di quanto aveva combinato. Si guardò intorno: ovunque sporcizia e miseria. Quell’ala del castello una volta ricca e sontuosa era ridotta ad una bicocca malconcia, senza neppure l’impianto antincendio! Corse sugli spalti come un forsennato a cercare la sua sposa Arcadia per chiederle aiuto. La principessa, anch’essa sugli spalti e angosciata per la sorte del suo principe, gli corse incontro e lo condusse in salvo nei sotterranei del castello in cui aveva fatto costruire un rifugio anti-assedio. I due sposi stavano per gettarsi l’uno nelle braccia dell’altra, ma l’ora non pareva propizia perchè i nemici incalzavano e urgeva organizzare la difesa. Berto si scosse e con decisione si rivolse alla sua sposa ritrovata: “Voglio parlare con il gatto con gli stivali, ho bisogno dei suoi consigli: tu fallo cercare, io intanto richiamerò l’esercito che sta sul monte dell’Orsa a contar le stelle e combatterò per riprendere il mio regno.” Arcadia finalmente si sentì felice pur nella sventura: il suo sposo, abbandonati i suoi infausti progetti, pareva ritornato un vero principe. Da parte sua convocò tutti i suoi ospiti, tra i quali si trovava il cantante Ettore Johns che con le sue nenie aveva il potere di far piangere anche le galline e di far aprire tutte le cateratte del cielo. Lo mandò sulla rupe più alta e quando questi intonò “Flowers in the wind” dal cielo cominciò a cadere una pioggia scrosciante che spense il fuoco dell’incendio. Poi ordinò alla sua fantasiosa dama di compagnia, Maria Poppins, di riordinare, subitamente, con le sue magie l’ala del castello che era stata del principe perché tutto ritornasse come prima. E così avvenne. Il principe Berto riuscì non solo a riconquistare le sue terre, ma occupò anche quelle di Ulderico de' Cicoria che dovette ritirarsi in un eremo. Arcadia, dopo aver spedito i suoi ospiti in tutti i luoghi della terra perché ritrovassero il gatto, attese ansiosa il ritorno del suo principe. Quando Berto giunse vincitore, questi si tolse la spada, l’elmo, la corazza, gli schinieri e si inginocchiò davanti ad Arcadia e le chiese perdono. Ora che aveva imparato dai suoi errori sarebbe stato più vigile e accorto e l’avrebbe tenuta cara e in grande considerazione. Arcadia da parte sua ammise che il lusso da lei ostentato non era che una reazione rabbiosa, seppur giustificata, ma che la vendetta non le era riuscita e che ora desiderava solo ritornare a vivere con lui. E così, felici e ritrovati, si buttarono l’uno nelle braccia dell’altra. Trascorsi alcuni mesi uno squillo sonoro di tromba a cui risposero, sonori, altri squilli, annunciò l’arrivo nella sala del trono di una eminente personalità: il gatto con gli stivali.

(continua...)
Venerdì 1 Aprile, 2011
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Berto corse a riceverlo con tutti gli onori e prese per primo la parola: “Caro amico, come ho potuto essere così folle? Avevo perso tutto a causa dell’invidia per te, dimenticando così di far fruttare la mia eredità. Ora il mio regno dovrà ingrandirsi sempre di più.” “Dimmi” disse il gatto che non aveva certo perso il suo smalto e la sua competenza “come mai vuoi arricchirti sempre di più?” “Perché povero è brutto, non è soddisfacente il diventarlo.” “Ebbene questo ti renderebbe più saggio, ma perché vuoi ingrandire il tuo regno?” Berto sempre più allibito, rispose: ”Perché io e Arcadia vogliamo stare bene, essere soddisfatti, senza di lei e senza il mio regno ero infelice, malgrado cercassi di dimenticarlo.” “Capisco il pentimento, la ripresa di ciò che era tuo, ma perché desideri essere più ricco e potente?” Berto si fermò di nuovo a pensare e rispose: ”Perché il mio desiderio di ricchezza è infinito e la mia ambizione smisurata...Aveva però dei dubbi su quanto andava dicendo, gli pareva poco chiaro e reale e allora finalmente, dopo averci ripensato, rispose con sincerità: ”Perché sono un re e un re ha da governare. Non è un mestiere come un altro. Ho dei sudditi e sarei sommamente angosciato se facessero contro di me una rivoluzione e mi cacciassero. Già ho avuto i loro forconi sulla testa, i loro cani contro, le loro donne poi mi volevano ridurre come il cantore Farinelli, reso eunuco dal fratello... Vedi, le terre del mio regno non bastano più perché la popolazione è triplicata e allora sarà mio dovere ampliare i confini del mio regno. La prima delle mie occupazioni sarà l’economia. Per non avere più carestie ho permesso che i contadini importassero un tipo di grano dall’Egitto che quintuplerà la produzione; per ottenere questo ho bisogno di una rete di canali e di una diga e gli ingegneri sono già al lavoro. Dal Nuovo Mondo ho fatto arrivare un tubero, la patata, che servirà come contorno per le carni. Perché queste poi siano sode e gustose, darò ai contadini sementi di trifoglietto svizzero così che il bestiame avrà nutrimento raffinato e oltre a carni saporite nel nostro regno scorrerà latte dolce come l’ambrosia. Gli svizzeri tenevano le sementi in casseforti d’oro, tanto è il loro valore e mi ci è voluto del bello e del buono per averle! In cambio ho dovuto cedere loro i frutti del cacao. E loro dai semi han ricavato cioccolata, ma Arcadia ha inventato la Nutella, crema imperiale! Il nostro vino ora sarà il migliore del mondo perché verrà invecchiato dai vinai in botti di rovere e castagno, avrà un sapore secco e gradevolissimo, si chiamerà Champagne ed è merito di Arcadia aver scoperto un metodo di invecchiamento. Vedi, se va male l’economia del regno, io rischio la corona e la testa, per questo una maggiore produzione di beni permetterà maggiori scambi e dunque più soldi nelle tasche dei miei sudditi che non faranno fatica a sborsare le tasse.” “Vedo che hai smesso di fare l’autarchico.” “Sto cercando di far fruttare tutte le risorse disponibili sulla terra che la mia stoltezza aveva cercato di ignorare. Io sono diventato marchese per merito tuo, poi principe, ma non mi rendevo ancora conto che significasse veramente governare un regno, la coscienza, come ben saprai, è sempre in ritardo...” Berto si fermò un attimo perchè gli pareva di aver detto qualcosa di non corrispondente a ciò che sentiva vero, poi però riprese: “così ho lasciato per troppo tempo che i miei talenti rimanessero lì a “bagno maria” Tu mi hai trattato con grande benevolenza, tu mi hai permesso di regnare, ebbene un principe non può permettersi di non fare il principe, anche perchè i suoi cortigiani, dignitari, ministri e così pure le loro famiglie, insomma tutti coloro che sostengono il governo gli taglierebbero la gola! perché è come se Dio decidesse di iscriversi ai sindacati per avere il sabato libero! Ti dirò di più: gli imperatori cinesi potevano pure essere corrotti, anche crudeli, ma se il fiume Giallo non straripava potevano continuare a regnare, altrimenti non avrebbero avuto più sudditi, i quali non chiedevano altro che alti argini per continuare a vivere!” Il gatto a questo punto interruppe Berto: ”Sei un bugiardo, mio principe, non è vero che non sapevi governare, lo hai fatto per mesi, ma invece di prendere da me, imitandomi, volevi diventare uguale a me, senza di me. A tuo merito posso però aggiungere che ora hai ricominciato a regnare!”

NOTE
1) Il nome “Berto” rimanda sia a “Bertoldo”, figura letteraria di contadino rozzo e astuto, sia a “Roberto”, nome di origine germanica, composto da hrothi (fama) e berth (chiaro, illlustre) e sta ad indicare le alternanze di condotta del personaggio della fiaba.
2) Regione della Grecia, mitica patria della poesia bucolica, dalla quale prende il nome una Accademia letteraria fondata a Roma nel 1690 da poeti del Circolo di Cristina di Svezia, i quali miravano alla riforma della poesia in nome della semplicità e in opposizione al marinismo. Ogni socio assumeva uno pseudonimo pastorale. Il nome di “Arcadia” dato alla principessa della fiaba sta qui ad indicare alcuni suoi tratti ingenui.
3) Le locande erano trattorie con alloggio. L’invenzione del ristorante vero e proprio si fa risalire alla fine del ‘700, da parte del gastronomo e scrittore francese Brillat-Savarin, autore de “La psicologia del gusto” (1825).